I 130 che hanno detto «signornò» perché «questa non è più guerra di difesa»

© AVVENIRE 2024/10
Con una lettera aperta, un gruppo di riservisti ha dichiarato il rifiuto a combattere fino a quando non ci sarà un accordo per liberare gli ostaggi. Rischiano fino a un anno di carcere …
Lucia Capuzzi, inviata a Gerusalemme sabato 12 ottobre 2024
«Not in their name», «non nel loro nome». Michael Ofer Ziv sintetizza così il motivo che ha spinto lui e altri 129 soldati israeliani a dichiarare lo sciopero dal servizio fin quando il premier Benjamin Netanyahu non raggiungerà un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza. «Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese. È il mio punto di vista ma è anche il sentire comune di quanti hanno deciso di firmare la lettera aperta all’esecutivo e al ministero della Difesa», afferma il 29enne impiegato nel settore dell’high-tech che, tra ottobre e dicembre, per tre mesi, ha prestato servizio come riservista e ufficiale di fanteria nella Brigata Gerusalemme nel nord di Gaza.
Prima di entrare nella Striscia, è stato per alcune settimane a Sde Teiman, la base diventata tragicamente nota per gli abusi sui detenuti palestinesi. «Ma non mi trovavo nella parte “incriminata” del compound», precisa. Il documento, sottoscritto a settembre, è diventato pubblico questa settimana, suscitando scalpore nell’opinione pubblica nazionale. L’esercito – Tzahal, dall’acronimo – è uno dei pilastri di Israele: ragazzi e ragazze prestano servizio militare obbligatorio da uno a tre anni. Al termine, inoltre, sono arruolabili come riservisti per i successivi vent’anni. Solo un’esigua minoranza rifiuta la chiamata, anzi molti si rendono disponibili anche dopo, come volontari. Contribuire alla difesa è un valore socialmente condiviso. Dopo il massacro di Hamas, le defezioni si sono praticamente azzerate.
Dan Eliav, all’epoca 63enne e, dunque, esentato, anzi ha fatto di tutto per tornare sul campo. Ci è riuscito entrando nella guardia di sicurezza della comunità in cui risiede, Zichron Yaakov, vicino ad Haifa. Per questo, si presenta all’appuntamento alle porte di Gerusalemme con il fucile d’ordinanza in spalla. «L’ho tenuto nonostante abbia lasciato. Ero nella mia fattoria al sud e là mi sento più sicuro con questa», dice, a mo’ di giustificazione, indicando la voluminosa arma. “All’indomani del 7 ottobre ho avvertito l’urgenza di combattere per la sopravvivenza di Israele. E l’ho fatto – racconta –. Ora, però, la minaccia è stata rimossa. Non si tratta più, dunque, della salvaguardia del Paese bensì della volontà del premier di prolungare a oltranza il conflitto per raggiungere i propri obiettivi. Cioè restare al potere il più a lungo e evitare i processi. Un’agenda che si combina perfettamente con quella della sua base sociale: i coloni e gli ultraortodossi ai quali la deflagrazione offre l’opportunità di realizzare il proprio sogno della “grande Israele” mediante la rioccupazione della Striscia e del sud del Libano.
Tzahal, come dice la parola stessa, è un esercito di difesa: deve garantire la sicurezza del Paese. E quest’ultima non si ottiene solo con la forza, bensì con la politica e il negoziato. Proprio quanto Netanyahu ostinatamente rifiuta».
«Lo abbiamo compreso di colpo a novembre quando, dopo il primo accordo con cui sono stati rilasciati 105 sequestrati, l’esecutivo ha deciso di riprendere i combattimenti», afferma uno dei 64 che hanno firmato la lettera con il proprio nome ma che ora chiede di restare anonimo per tenere un basso profilo. Allora, il ricercatore 26enne era arruolato nel Battaglione 923, in servizio a Beer Sheva. «All’inizio pensavo di essere là per una causa concreta: salvare le vite dei civili nel sud. Poi, man mano che diventava palese la distruzione massiccia della Striscia, mi sono reso conto che le ragioni erano ben altre – racconta di fronte a un lunghissimo caffè americano –. Per questo, quando mi hanno offerto di entrare a Gaza, ho detto no».
Da tali riflessioni è scaturito, ad aprile, un primo documento che minacciava l’obiezione in seguito all’incursione dell’esercito a Rafah dove erano ammassati quasi due milioni di profughi. Micheal, Dan e il 26enne l’hanno sottoscritto, insieme a 39 colleghi. Cinque mesi dopo, quando è stato lanciato un nuovo documento, le adesioni sono triplicate. «Le ragioni sono due: il protrarsi del conflitto e l’avere scelto di concentrarci sull’urgenza di riportare a casa gli ostaggi, su cui c’è ampio consenso nella società israeliana», sottolinea il ricercatore 26enne. «Il ritorno degli ostaggi tocca i fondamenti etici su cui si basa l’identità stessa Israele: la cura reciproca e la certezza di non lasciare indietro nessuno – ribadisce Dan –. Consentire che vengano meno, con l’abbandono dei rapiti, vuol dire mutare il Dna del Paese. Israele non sarebbe più ciò che è. Salvare l’essenza della nazione è la vera battaglia che dobbiamo combattere». Il costo può essere salato. Chi rifiuta di tornare in servizio come riservista rischia fino a un anno di carcere.
Sia Michael sia il 26enne l’anno fatto: il primo a giugno, il secondo una settimana fa. Possono, dunque, essere processati in ogni momento. «Ne varrebbe la pena», dice Michael. «La reazione furibonda della ministra dei Trasporti, Miri Regev, la quale, sbattendo un pugno sul tavolo, ha minacciato di farci arrestare tutti e 130, indica che abbiamo toccato un punto cruciale», aggiunge Dan. L’esercito, da parte sua, minimizza. Alla richiesta di un commento si è limitato a rispondere: «Ci risulta che solo cinque dei firmatari siano in servizio come riservisti. L’effetto reale non è, dunque, rilevante».
«Rispetto alla lettera di aprile – conclude il 26enne –, stavolta stiamo ricevendo molti più messaggi da colleghi che, pur non avendo aderito, condividono la nostra posizione. La pressione internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per fermare la guerra. Occorre anche l’opposizione interna. Esiste. Si tratta solo di farla emergere. Ciascuno di noi deve fare la sua parte».
LE MIE CONCLUSIONI
Più chiaro di così!
- Sono le stesse cose che fin dal Dicembre 2023 diceva la gente comune israeliana ed ebrea, in particolare quella che a centinaia di migliaia ha fatto dimostrazioni (e continua a farne), specialmente i parenti degli ostaggi, contro Netanyahu chiamato non Prime Minister, ma “CRIME Minister”.
- Sono le stesse cose che il presidente scadente Biden diceva a parole!
- E che un sacco di politologi, diplomatici Occidentali e Orientali, del Nord e del Sud … dicevano anche loro.
E allora? Come si spiega che Net (e Gallant) resti ancora al comando? La giornalista Capuzzi riporta alcune spiegazioni sintetiche che le hanno dato i firmatari della lettera. Senza pretesa, dal mio punto di vista vorrei commentarle e ampliarle in questo modo:
- Si spiega col fatto che Biden, ricattato in vista delle elezioni presidenziali del 4 Novembre, si è lasciato “prendere per il naso” da Net, continua a fornirgli miliardi di armamenti e a dargli tutta l’assistenza militare di cui dispone, oltre a permettergli l’ingresso negli USA, pur essendo stato spiccato contro di lui un ordine di cattura internazionale ….
- Si spiega col fatto che Net continua ad essere saldamente sostenuto:
- qui in Israele dai ministri razzisti della sua coalizione governativa e dagli altri parlamentari degli stessi partiti estremisti; e dai partiti ultraortodossi religiosi che sono foraggiati ed esentati da tasse e dal servizio militare …; dalla base socio-ideologica-movimentistica,costituita dai “coloni” e dalle 7 organizzazioni terroristiche dichiarate e riconosciute (tra cui “I ragazzi delle cime delle colline” e altri …) che secondo “The Times of Israel” sarebbe di oltre il 30% dei votanti, e stanno continuando a rubare terreno palestinese nella West Bank;
- Negli USA dalla coalizione composta da molti potenti/influenti operatori: industriali di armamenti, finanzieri, ideologi, messianici evangelici, lobbisti dei mass-media…
- Nei Paesi Arabi: dall’Arabia Saudita (e dai suoi fiancheggiatori) che vuole sbarazzarsi non solo dei movimenti di resistenza (Hezbollah, Hamas, Jihad Islamica, Houthy…), ma degli stessi Palestinesi, e perciò sta ora chiedendo all’Iran di ritirare loro il suo sostegno se vuole “fare affari” con lei, cioè aut aut!
La mia conclusione? Con molta amarezza dico tre cose:
- è certamente un segnale positivo questa lettera dei 130 coraggiosi obiettori. Ma non basta. Forse quando diventeranno 13,000 qualcosa comincerà a incrinarsi. Ma ce ne vorranno 130,000 per cambiare le cose.
- Ma gli altri, non hanno nessuna colpa? Iran, Hamas, Jihad, Hezbollah ecc., stanno facendo qualcosa di effettivo che possa far cambiare idea, non dico a Net-Gallant-Ben Gvrir-Smortrich-Coloni, ma alla popolazione israeliana, alle famiglie dei soldati israeliani, così che da esse si levino 130,000 obiettori?
- E dove sono i 130 obiettori dalla popolazione palestinese (di Gaza o della West Bank o della Diaspora) che hanno il coraggio di dire ad Hamas, Hezbollah … “Signornò, perché questa che voi state combattendo non è più una guerra per il nostro bene, ma per i vostri interessi!” dove sono? Finora la popolazione palestinese è terrorizzata da Hamas e Hezbollah e soci!
Don Gianni, Betlemme 15 ottobre 2024.
CI HANNO SCRITTO