La religione nei giovani arabi musulmani: evoluzione (rivoluzione) silenziosa

Una serie di domande ad un gruppo di giovani al di sotto dei 30 anni, per saperne di più quanto alla religione, alla voglia di vivere liberi e costruire un futuro un po’ diverso dall’attuale…

Non è un segreto per nessuno che, globalmente, i Paesi arabi stentano a tenere il passo con un mondo che evolve rapidamente in tutti i campi, indipendentemente dalle scelte operate e dalle motivazioni che le generano. Le società di questi Paesi sono ritenute per lo più tradizionaliste e conservatrici e tra i fattori frenanti si cita abitualmente la religione islamica, nonostante gli sforzi in atto in molti ambienti per conciliare Islam e modernità, nella salvaguardia dei valori essenziali espressi dalla religione stessa.
Gli scossoni subiti da vari Paesi arabi a partire dalle cosidette “primavere arabe”, iniziate 10 anni fa, ma con risultati globalmente e apparentemente deludenti per chi si aspettava la nascita di un nuovo mondo a livello politico, culturale e socio-economico, hanno nondimeno inciso e continuano ad incidere nell’evoluzione di società, religioosamente musulmane nella stragrande maggioranza e formate da circa il 40% da giovani. Questi, aperti per natura a ogni forma di evoluzione e ormai in buona parte adepti dei social media e delle nuove tecnologie, immersi in un mondo globalizzato, non vivono più in un’isola e tutti i tentativi per tenerli al passo o bloccarli è destinato prima o poi al fallimento.
La religione, come componente fondamentale di queste società, non può ritenersi esente da critiche e contestazioni. Se fenomeni di distorisione ideologica della religione sono presenti e quindi pericolosi, ma assai minoritari, sensibilmente più diffuso si sta ormai rivelando l’atteggiamento di prendere una certa distanza nei confronti della religione e fare quindi delle scelte non più in linea con quelle che la società proponeva.
In questo senso, se non è possibile parlare di rivoluzione, sembra possibile e legittmo parlare di evoluzione, ma senza pretendere fissare scadenze e modalità di attuazione. Il processo è avviato, e come ogni processo culturale, può subire delle frenate o un’involuzione, ma riprenderà.

Don Vittorio

Salesiano DOC, SSB

Il quotidiano libanese e francofono L’Orient-Le Jour ha pubblicato agli inizi di febbraio 2021 tre lunghi articoli, dedicati rispettivamente alla percezione e all’atteggiamento dei giovani arabi (musulmani) nei confronti della politica, della religione e della sessualità: tre temi che già nei 1973 erano stati oggetto di un libro, (al-Thâlûth al-muharram, Il Triangolo del divieto) dell’intellettuale siriano Abu Ali Yassine sui tabù nel mondo arabo.
Si riporta qui la traduzione integrale del secondo articolo, dedicato alla religione, con testimonianze di giovani sotto i 30 anni di varia provenienza. (V. Pozzo)


Tratto dal quotidiano “L’Orient-Le Jour” | 03/02/2021


“Quando ero piccolo, andavo da mio nonno tutti i giorni dopo la scuola per imparare dei brani del Corano. Non sapevo che cosa fosse lo Stato, perché la mia famiglia ne aveva paura. Con la rivoluzione ho capito e la religione non è più molto importante nella mia vita”: (Jamal, 22 anni, fotografo a Idleb). Non era che un bambino quando le prime manifestazioni sono cominciate nella primavera 2011. È stato testimone dei bombardamenti e dell’esodo, ha visto la morte da vicino, amici e parenti scomparire, vissuto sotto il giogo dello Stato islamico, quindi di al-Nosra. Il suo percorso testimonia oggi di una evoluzione percettibile nella gioventù araba in questo ultimo decennio: il religioso era sovente percepito come un mezzo di emancipazione nei confronti dell’onnipotenza dei regimi, ma oggi è esso stesso oggetto di forti sospetti quando entra nella sfera politica. Le esperienze islamiste e soprattutto jihadiste hanno lasciato il segno. Ma non soltanto. La diffidenza è pure legata al fatto che il discorso religioso ufficiale ha per lo più partecipato a legittimare l’autorità dei regimi esistenti, soprattutto in paesi presentati come laici, come la Siria.

Dieci anni dopo le primavere arabe che hanno fatto tremare tutta una regione, la religione resta onnipotente in seno a queste società, ma la sua funzione politica e normativa è rimessa in questione da una buona parte dei giovani. La rottura in questo senso non è radicale, ma più latente. Il mondo arabo non è necessariamente meno religioso di prima, ma il rapporto che lega le popolazioni locali al potere spirituale sembra prendere nuove forme.

“La religione continua a giocare un ruolo molto importante nella vita pubblica e privata della gente”, ritiene Abdul Wahab Kayyali, esperto presso l’Arab Barometer. Secondo un sondaggio realizzato da un centro di ricerche nel dicembre 2019, il numero di abitanti nella regione MENA (Medio Orient-Nord Africa) che si qualificano come “non religiosi” è passato dall’8% nel 2012-2013 al 13% sei anni dopo. L’evoluzione è ancor più visibile presso i meno di 30 anni, dove questa percentuale ha raddoppiato per raggiungere il 18%. Prova che la liberazione della parola politica in seno a una società tocca direttamente il suo rapporto al religioso. Le evoluzioni sono particolarmente percepibili in seno a paesi toccati dalla prima ondata di primavere arabe (Tunisia, Egitto, Libia, Yemen). Presso i meno di 30 anni, la metà dei Tunisini, un terzo dei Libici e il quarto degli Algerini si dicono ormai “non religiosi”. “Questa tendenza si manifesta in modi diversi: ragazze che si tolgono il hijab, uomini che cessano di pregare, o non lo fanno che il venerdì, ma continuano tuttavia a considerarsi musulmani. Poi ci sono coloro che hanno perso completamente la fede e affermano di non credere più in Dio, spiega un ricercatore presso l’Istituto universitario europeo di Firenze. Secondo gli studi dell’Arab Barometer, le donne tendono di più a dichiararsi “religiose praticanti” che non gli uomini: 31% contro 23%.
Tutte queste cifre sono da prendersi con cautela. Siccome il mondo arabo è plurale e diverse tendenze sono presenti, talvolta nello stesso paese, ma soprattutto per il fatto che definirsi come “religioso” non ha necessariamente lo stesso significato secondo le persone e i contesti. Testimoniano tuttavia di un cambiamento progressivo di percezione per rapporto al posto che la religione deve occupare nella società.

“Ero musulmano per difetto”

Infatti due tendenze sembrano occupare lo spazio durante quest’ultimo decennio in seno alla gioventù araba. Una promette un ritorno a una visione più conservatrice della religione, l’altra cerca di emanciparsi. Essendo i segni di religiosità più visibili di quelli di una secolarizzazione progressiva, la prima ha attirato l’attenzione mediatica e ha lasciato credere a un ritorno massiccio della religione. Ma la realtà è molto più sfumata. Indossare il velo, su cui esistono pochi dati, è spesso ritenuto un barometro a occhio nudo, ignorando il fatto che questa pratica può ricoprire realtà molto diverse che non sono tutte incompatibili con una forma di secolarizzazione della società. “Vedo sempre più hijab intorno a me e la gente non fa che giurare per il Corano e il Hadith”, afferma Ghida, una giovane marocchina cresciuta in un ambiente familiare non credente. Al contrario, Khadija, una giovane del Koweit, cresciuta in un universo conservatore, non è mai stata costretta a portare il hijab. “Ho imparato ad accettare chi sono, pur mantenendo la mia prospettiva. I miei genitori sono musulmani conservatori, ma sono pure liberali per quanto riguarda le mie scelte di vita”, riconosce la ragazza.

Cresciuti in un ambiente familiare religioso, coloro che non abbandonano la fede, si distaccano a volte dalla pratica per motivi diversi. Jamâl, cresciuto in una famiglia pia di Idleb, prega quando gli pare. ”Ho dimenticato Il Corano. Come dice mio nonno: “La religione deve renderti felice e non essere un intralcio alla tua vita”, dice. Samir, un giovane Kabilo algerino di 27 anni, è lui pure cresciuto in un ambiente di campagna praticante. Da quando si è emancipato vivendo nella capitale, riconosce di aver completamente voltato le spalle alla religione. “Ero musulmano per difetto, ed ero un esempio di assiduità religiosa. Il mio cambiamento ha scioccato la mia famiglia, ma essi pensano solo che io non pratico più. Non sanno che io non credo più”, racconta. Marwan, un giornalista egiziano di 29 anni, confida da parte sua che è stato il periodo 2011-2012 a spingerlo a rimettere in causa la religione. “Nella mia famiglia ci sono degli sheikh, e fin dalla mia fanciullezza mi hanno insegnato ad essere un buon musulmano, ma in seguito non vi ho più dato importanza, anche se non mi considero oggi come ateo”, dice.

Pochi numeri circolano sulla percentuale di persone che si dicono atee o agnostiche. Il tema resta ancora tabù. Per questo fatto, coloro che si identificano come tali temono rappresaglie o una messa al bando della società. Tuttavia parecchi indici lasciano pensare che il numero di atei sia in aumento nella regione, soprattutto nel Golfo dove la stretta religiosa si è allentata negli ultimi anni. Le riforme condotte dal principe ereditario Mohammad ben Salman in Arabia Saudita, soprattutto per quanto riguarda l’indossare la ‘abaya da parte delle donne, hanno permesso un certo allentamento. La polizia religiosa, la Mutawwa, che terrorizzava i Sauditi applicando alla lettera la shari’a nei luoghi pubblici, è stata così spossessata dei suoi poteri dalle stesse autorità. Nonostante questi passi in avanti, il regno saudita è preso di mira come uno dei “peggiori violatori” delle libertà religiose al mondo, secondo un rapporto del 2019 della Commissione americana sulla libertà religiosa internazionale (US-CIRF), che sottolinea la discriminazione nei confronti dei cristiani e degli sciiti.

“Quando Daesh è entrato a Idleb, ho incominciato a detestare la religione”

Mentre le primavere arabe hanno permesso ai partiti islamisti (tendenza Fratelli musulmani) di giocare un ruolo di primo piano sulla scena politica, la fiducia che gli accordano le popolazioni arabe non fa che diminuire negli ultimi anni. Era del 35% nel 2013 – anno chiave per i Fratelli musulmani i quali, dopo aver raggiunto l’apice, hanno incominciato la loro discesa agli inferi dopo il colpo di Stato del generale Abdel Fattah al-Sissi contro il presidente Mohammad Morsi in Egitto – ma del 20% nel 2018, secondo l’Arab Barometer. “Nonostante i loro percorsi e i loro risultati differenti, sia i Fratelli musulmani in Egitto che Ennahda in Tunisia sono stati percepiti da molti giovani come opportunisti, solo per prendere il potere. Molti di essi sono stati frustrati e spinti a dubitare della “religiosità come segno di onestà di una persona”. “Ho notato ripetutamente questo rilievo in Egitto da parte di donne che si sono tolte il velo”, rileva un osservatore.

Questa diffidenza non riguarda soltanto i gruppi islamisti, ma tocca pure i leader religiosi. Nel 2013, circa il 51% dei giovani interrogati dall’Arab Barometer diceva di avere fiducia nei capi religiosi in misura “grande” o “media”. Sei anni dopo si è scesi al 40%. Un altro sondaggio, effettuato da Arab Youth Survey alla fine del 2019, offre cifre ancora più eloquenti: il 66% dei meno di 30 anni nel mondo arabo ritengono che la religione giochi un ruolo troppo importante e 79% pensano che le istituzioni religiose abbiano bisogno di essere riformate. Il discorso di queste sembra particolarmente fuori fase rispetto alle esigenze del quotidiano e le sfide che deve affrontare la nuova generazione, gran parte della quale ha avuto un accesso facilitato alle nuove tecnologie. In modo più generale, esiste pure una certa stanchezza del dominio religioso nella vita quotidiana, soprattutto dopo la re-islamizzazione delle società negli anni 80, accompagnata da un bigottismo sempre più diffuso.

Anche queste cifre possono sembrare contro-intuitive, mentre l’attualità di questi ultimi anni nella regione è stata segnata dall’ascesa (e caduta) di vari gruppi islamisti e jihadisti. Al contrario, ciò dimostra che le due tendenze coabitano. Il moltiplicarsi degli attacchi jihadisti, la cui maggioranza è avvenuta nei paesi arabi, e il rigorismo che questi gruppi estremisti hanno imposto mediante il terrore per tenere con pugno di ferro le popolazioni locali, hanno inoltre provocato presso molti una forma di disgusto più generale per tutto ciò che tocca la sfera del religioso. “Quando Daesh è entrato a Idleb prima di al-Nosra (ramo siriano di al-Qaeda), mi sono messo a detestare la religione perché ci volevano obbligare a pregare ed essere ultra-pii”, riferisce Jamal. “Una volta, un miliziano dello Stato islamico ha fatto la morale al mio amico perché fumava. Alcune settimane dopo, ho visto questo individuo fumare. Non è che ipocrisia”, prosegue il giovane. Questi giovani, aperti al mondo mediante le reti sociali notano pure l’impatto negativo per i musulmani in termini di immagine prodotti da questi gruppi che si pensa li difendano. Ahmad, 26 anni, è di Raqqa, dove ha conosciuto anche lui il terrore dello Stato islamico. “Era tutto, tranne islam. E io rifiuto oggi che la mia religione provochi la diffidenza della gente nei nostri confronti”, spiega questo giovane disoccupato. “Un giorno mi sono detto: ‘Chissà perché non sono nato cristiano?’ Sono benvoluti da tutti, nessuno li tocca, nessuno fa loro la guerra, hanno sempre speranza”, confida Jamal.

“È la religione che traccia la via allo Stato”

Il discorso politico-religioso può così suscitare al tempo stesso molto fervore e molto sospetto. Il caso iracheno in materia è particolarmente interessante. Le milizie sciite che dipendono dall’Iran o quelle affiliate al religioso Muqtada Sadr sono in grado di mobilitare decine di migliaia di giovani in poche ore, segno che la loro retorica politico-religiosa trova ancora un’eco importante. Al tempo stesso, il movimento di rivolta che ha scosso il paese per vari mesi alla fine del 2019 ha evidenziato un altro discorso in seno a questa gioventù, spesso meno udibile perché assente dalla scena politica, di critica radicale verso tutte queste figure politico-religiose. “No alla religione o alle sette”, si poteva sentire durante queste manifestazioni nelle quali persino la più alta autorità dell’islam sciita iracheno, l’ayatollah Ali Sistani, non è stata risparmiata. “Chiediamo uno stato civile che separi la politica dalla religione. Il posto della religione non è nel Parlamento, non è nel potere legislativo o nella giustizia”, pretende Roula, 29 anni, avvocatessa irachena.

Il rifiuto della strumentalizzazione del religioso da parte del politico può assumere diverse forme. Va dall’idea di separare rigorosamente la religione dallo Stato, diffusa soprattutto tra la gioventù liberale e benestante e che sta guadagnando terreno, a quella che sembra più condivisa, di distinguere semplicemente le due istituzioni, perché il religioso non sia deviato dal politico. A volte la distinzione è sottile. In Siria, alcuni rivoluzionari, paladini di una secolarizzazione del politico, impiegavano talvolta contemporaneamente una retorica ispirata all’universo religioso, talmente radicato nella cultura, e prima ancora nella lingua, così quasi da “laicizzarla”. Nelle famiglie ultra-pie separare la religione dallo Stato è un’idea strana, come afferma Abdallah, 27 anni, che vive nei territori palestinesi. “La politica e la religione sono legate. È la religione che traccia la via allo Stato e gli permette di risolvere i problemi”.

La religione non ha perso la sua sacralità, ma forse la sua centralità. A fine ottobre la ripubblicazione delle caricature di Maometto nel giornale satirico francese Charlie Hebdo e, alcune settimane dopo, le dichiarazioni di Emmanuel Macron che presentavano l’islam come una religione “in crisi nel mondo intero”, hanno suscitato un’ondata di indignazione nei paesi musulmani, dove la blasfemia è largamente riprovata, anche nelle minoranze cristiane. ”Una persona è libera di disegnare ciò che vuole, ma anch’io ho il diritto di esprimere il mio ‘no’, boicottando i prodotti francesi”, ritiene Malika, 28 anni, un’insegnante d’inglese algerina. ”Sono al 100% per la libertà di espressione, ma ugualmente contro le caricature perché sono un insulto, un’aggressione verbale e psicologica contro tutta una comunità”, deplora Shafik, 29 anni, che abita a Ramallah, in Cisgiordania. Ma la pubblicazione delle caricature del Profeta non ha spinto la gioventù araba nelle strade, quella stessa gioventù che ha manifestato massicciamente contro i poteri dominanti negli ultimi anni, e nonostante il tentativo di ricupero politico-religioso da parte di certe autorità. “Il sollevamento giovanile ha rivelato ancora una volta la demagogia dei dirigenti e l’ignoranza di alcuni che preferiscono prendersela per delle caricature che concentrarsi sui problemi interni”, deplora Yasmine, studentessa algerina di 22 anni.

Nel mondo arabo, Dio non è morto. Ma agli occhi di una parte della gioventù, sembra aver perso un po’ della sua onnipotenza.

(Inchiesta di Caroline Hayek, Antoine Ajoury, Julie Kebbi, Soulayma Mardam Bey e Elie Saikali, pubblicata in l’Orient-Le Jour, mercoledi, 3 febbraio 2021, pag. 6).

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