Vino bianco e patatine
Quello che so è che mi mancherà tanto. Tutte le volte che ci vedevamo era una piccola festa, ed era come un tornare a casa. E mi chiedo ancora in virtù di cosa potesse esercitare un influsso così potente sulle persone che la conoscevano.

© 17 aprile 2012 sull’ovovia ad Harissa
Sarà stato una decina di anni fa, ma potrebbero essere di più, o di meno. Stavo parlando al telefono con Marina, non mi ricordo per quale motivo e di cosa – forse era un anniversario, un compleanno suo o mio – quando improvvisamente mi disse: “perché non vai a trovare Pia, adesso abita a Milano, ha dei problemi di salute, può farle piacere un po’ di compagnia…”. Le chiesi chi fosse Pia, perché da Beirut non ricordavo una ragazza con questo nome. Mi spiegò, e me la ricordai subito: io la conoscevo come Anna Dandolo, la sorella di Giorgio. Era nella classe dopo la mia, con Giuseppe Pigozzi, Berta, Rita Cataldo, Paolo Chiari… e a un certo punto lo stesso Giorgio. Lui me lo ricordavo bene: un po’ guascone, simpatico, più grande della sua età, bravissimo a calcio, a basket, a pallavolo, a qualsiasi cosa che comportasse movimento. Era stato anche in classe con me. Lei l’avevo conosciuta meno, ma ricordavo una ragazza minuta, graziosa, capelli e occhi scuri e sguardo vispo, ben fatta, sorridente. Della Pia di Beirut mi restavano nella memoria soprattutto due immagini. Una di lei e Berta in cortile, tutte due in jeans e maglietta, molto carine. Un’altra, molto viva questa, di Pia nel sottoscala del refettorio, in piedi sopra un tavolo, scatenata in una danza del ventre assolutamente coinvolgente, al suono di una canzone araba.
Poi, naturalmente, non l’avevo più vista. Sapevo che era tra i pochi che erano rimasti a Beirut (d’altronde lei e suo fratello erano per metà libanesi) e girava voce che Giorgio addirittura combattesse o avesse combattuto in una milizia cristiana. Per me che ero consegnato alla noia della mia vita italiana, tutto ciò che riguardava Beirut e la guerra assumeva una dimensione dilatata ed eroica. Poi, con gli anni, mi ero dimenticato di tante cose e di tante persone, anche di Pia.
Mentre mi avvicinavo al suo appartamentino sui Navigli ero abbastanza inquieto, e non solo perché a me i Navigli non piacciono. In fondo, non ci vedevamo da più o meno 40 anni. Avrei avuto qualcosa da dirle? Il tempo non ci avrebbe per forza reso completamente estranei? Mi aveva poi avvisato: “Guarda che sono cambiata, non mi riconoscerai…”, come se avesse paura delle mie reazioni. Io non sono una persona capace di grandi slanci emotivi e già mi vedevo in difficoltà di fronte a una situazione forse complicata.
Entrando mi trovai di fronte una donna anziana, scavata e magrissima, dai lunghi capelli grigi, con le cannule dell’ossigeno nel naso, che arrivavano all’apposita bombola attraverso un lungo filo. Non me l’aspettavo: e credo di avere iniziato con un “ma tu non ti chiamavi Anna?” o qualcosa del genere. Aveva preparato qualche stuzzichino, del vino, e pian piano iniziammo a parlare di Beirut, delle conoscenze che avevamo in comune e poi anche della sua salute, del perché era costretta a prendere l’ossigeno da una macchina, di cosa le era successo. Nel frattempo, aveva risposto un paio di volte al telefono (una sarà stata sicuramente a Berta…) e, come in una macchina del tempo, risentivo quella cadenza francese particolarissima che hanno solo i libanesi, accompagnata da frasi in arabo e in inglese. Nonostante l’ossigeno, Pia si concesse volentieri un paio di sigarette, alla faccia del suo medico, come avrebbe continuato a fare sempre. Alla fine della serata avevamo bevuto un po’ e parlato molto e io mi sentivo stranamente a mio agio, forse anche per via di qualche dolcetto libanese che nel frattempo era comparsa accanto al vino.
Fu l’inizio di una consuetudine. Uscivamo a mangiare insieme o ci invitava a casa sua, talvolta anche con Berta, che era spesso di passaggio a Milano e con la quale formava da sempre una coppia improbabile quanto inseparabile. Ricordo ottime cenette libanesi e un kebbeh da sogno che non mangiavo, appunto, da più di quarant’anni. Lei e Daniela – la mia compagna – divennero buone amiche. Ogni tanto Berta – soprattutto dopo che Pia aveva acquistato un apparecchio portatile per l’ossigeno, che poteva essere ricaricato in viaggio – la rapiva e la portava a Venezia, o ai mercatini di Natale in Alto Adige, o in altri posti. Pia compariva nelle foto sul cellulare o su Facebook, esausta e provata ma contenta di queste interruzioni della faticosa quotidianità a cui inevitabilmente tornava, con un misto di angoscia e di sollievo.
Iniziammo a conoscere e a capire di più della sua vita, difficile fin dall’inizio. Il padre se ne era andato, e lei e Giorgio erano rimasti in Libano con la madre. Aveva affrontato la guerra civile, di cui non amava parlare e all’interno della quale aveva anche avuto un qualche ruolo. Aveva sicuramente visto cose orribili, che preferiva non ricordare. Aveva poi dedicato gran parte del suo tempo e delle sue energie all’assistenza di una sorella disabile alla quale era estremamente legata e della quale io, a Beirut, non immaginavo neppure l’esistenza. In tutto questo non era riuscita a trovare un lavoro pienamente riconosciuto, né a sistemarsi in qualche modo. Poi, a un certo punto si era resa conto di avere una malattia degenerativa ai polmoni, una malattia che prima o poi l’avrebbe condotta alla morte, e aveva deciso di trasferirsi a Milano. Come cittadina italiana avrebbe ottenuto l’assistenza sanitaria gratuita che in Libano non avrebbe mai potuto avere, e Milano – per pessima che possa essere l’aria che tuttora vi si respira – aveva comunque strutture sanitarie pubbliche affidabili. Poi, forse, del Libano ne aveva proprio avuto abbastanza. Non era più quel Libano.
La sua casetta sui Navigli era diventata una sosta obbligatoria per chi era in transito, per gli ex di Beirut, per le sue amatissime nipoti, le figlie di Giorgio. Ma con ogni mese che passava, faceva più fatica. Con l’arrivo del Covid passò mesi senza uscire di casa, con guanti e mascherina. Un semplice raffreddore avrebbe potuto mandarla in ospedale. Anche in seguito, abbiamo evitato di andare a trovarla tutte le volte che avevamo il minimo sospetto di non stare bene. Ma nonostante tutto questo non si arrendeva: era persino riuscita a ritornare per qualche giorno in Libano, affrontando la complessa logistica dell’ossigeno, per il matrimonio della nipote Pamela, e si era presentata alla cerimonia con un vestito assai elegante.
Ci furono la morte di Carla, che segnò entrambi e che ci avvicinò ulteriormente – non sapevo che fossero tanto amiche – e la catastrofe, la morte improvvisa di Giorgio, a Beirut. Giorgio, benché lontano, per lei era tutto. Ora avrebbe dovuto affrontare tutti i suoi problemi da sola. Il primo fu la necessità di dovere cambiare casa e traslocare. Ricordo che stavo male solo al pensiero della fatica che avrebbe fatto a trovare una casa nelle sue condizioni – e ai prezzi di Milano. Eppure, con il suo carattere fortissimo, superò tutte le difficoltà fisiche ed emotive e riuscì a trovare un’altra casa, bella, tranquilla e accogliente. Era stremata, ma ce l’aveva fatta. Giorgio l’aveva aiutata, dall’alto. Iniziò un nuovo rituale: aperitivo a casa e poi cena in un ristorante vicino, dove veniva sempre accolta con affetto – perché Pia sapeva farsi voler bene da tutti. Ordinava un piatto di pesce e – sempre – delle patatine fritte, mangiava un paio di bocconi appena (il resto lo finivo sempre io) e si godeva abbondanti calici di certi vini bianchi siciliani che piacevano molto ad entrambi. Poi la riaccompagnavamo a casa.
Con il passare del tempo, anche questo divenne sempre più faticoso. Ormai dell’apparecchio per l’ossigeno non poteva fare più a meno neppure per un attimo. Anche le ridottissime quantità di cibo che mangiava le provocavano malesseri intensi e, per via dei problemi che aveva anche alle ossa, non c’era più una posizione in cui riuscisse a trovarsi a suo agio. Raimondo, che in questi anni le è stato più vicino di chiunque altro, la invitava a pranzo in occasione di anniversari o nei giorni di festa, ma doveva poi presto riportarla a casa perché Pia era stremata dalla fatica e dai dolori. Alla fine, era diventato troppo pesante anche andare al ristorante vicino a casa sua. Pia faceva fatica a mangiare, a dormire, a camminare, a stare seduta, a fare qualsiasi cosa – e naturalmente respirava molto male, senza per questo mai rinunciare alla sua sigaretta. Daniela riuscì comunque a portarla l’inverno scorso al concerto di Massimo Ranieri al Teatro Arcimboldi, come regalo di compleanno. Io non c’ero – nulla al mondo potrebbe costringermi ad assistere a un concerto di Massimo Ranieri – ma Pia, che ne era grande fan e lo desiderava tanto, era contentissima, anche se dovette prepararsi a tornare a casa prima degli ultimi bis, per i limiti di autonomia del suo apparecchio.
In tutto questo io rimanevo sempre profondamente colpito e ammirato dalla forza d’animo di questa donna, capace di passare mesi e anni chiusa in un piccolo appartamento, da sola con i suoi ricordi, a guardare la televisione, a ricevere telefonate o videochiamate e a tenere compagnia a se stessa nella disperante attesa di quello che inevitabilmente sarebbe prima o poi successo. Io che mi lamento se solo ho un dolorino alla spalla guardavo ogni volta Pia, che ormai pesava poco più di 30 chili e che avrei forse potuto sollevare con un braccio, prepararsi a un’altra nottata insonne di sofferenza. Avrei tanto voluto poter fare qualcosa per lei, ma sapevo di non poter fare nulla. Ormai mi sentivo a disagio anche nel telefonarle: come potevo chiedere “come stai?” a una persona che sapevo stare comunque male? Come potevo goffamente cercare di confortare chi aveva comunque molta più forza interiore di quanta non ne abbia mai avuta io? E andandola a trovare, le sarei stato troppo di peso, costringendola a fatiche per lei non più sopportabili? Aveva detto chiaramente di essere stufa, di non farcela più, di non voler più vivere a quelle condizioni, di non avere fatto nulla per meritare tutto questo. Era una persona di grande dignità e riserbo. Non si entrava mai completamente in confidenza con lei. Eppure, l’aveva detto. Tante volte mi sono sentito in difetto nei suoi confronti, come chi senza merito alcuno abita un corpo sano e può fare più o meno ciò che vuole, mentre Pia restava a casa a Milano anche in agosto, e non poteva andare da nessuna parte.
Ero sul punto di vincere la mia ritrosia e andarla a trovare con una bottiglia di vino – sicuro che non avrebbe voluto uscire – quando Marina, di nuovo lei, mi ha mandato un messaggio dicendomi che era in ospedale. Berta me lo ha confermato poco dopo. Sono andato al Policlinico appena ho potuto: è un ospedale che conosco bene. Pia, ormai ridotta al suo naso e a un mucchio di ossa, era sul lettino, circondata da sonde, cannule e apparecchi che ne monitoravano i parametri vitali. Credo mi abbia riconosciuto, ma non è importante. La previsione era che non sopravvivesse alla notte ma, tenace come sempre, con i pugni serrati sotto il lenzuolo, di notti ne ha fatte passare altre tre. La prima sera ho avuto conferma di quanto la morte, oltre che tragica, possa essere grottesca: nel letto accanto al suo è improvvisamente stata portata in barella una donna che doveva pesare almeno 120 chili. Mentre Pia ansimava, con gli occhi semichiusi, lo schermo televisivo perennemente acceso della camera trasmetteva ad alto volume i quiz di Rai 1.
Sono tornato in ospedale tutte le volte che ho potuto. Pia era ormai completamente incosciente, sedata dalla morfina. Mi hanno detto che si è aperta in un grande sorriso quando ha capito che sua nipote era arrivata dal Canada ed era lì accanto a lei. Ed è paradossale che una donna così abituata ad essere sola, che avrebbe potuto morire in casa in qualsiasi momento senza che nessuno se ne accorgesse, sia in realtà morta circondata da amici e poi dai suoi parenti più stretti, venuti da lontano. Se ne sarà accorta e certo ne sarà stata contenta.
Quello che so è che mi mancherà tanto. Tutte le volte che ci vedevamo era una piccola festa, ed era come un tornare a casa. E mi chiedo ancora in virtù di cosa potesse esercitare un influsso così potente sulle persone che la conoscevano. I suoi sorrisi erano contagiosi, certo, ma c’era anche qualcosa d’altro, che non so definire, qualcosa di solido e inscalfibile, che offriva addirittura protezione. Quello che so è che senza di lei mi sentirò molto più solo.
Sergio, come ringraziarti per la tua testimonianza? Hai condiviso la tua profonda esperienza di amicizia con ANNA PIA, intessuta nel periodo della sua maturità umana e spirituale. “L’ oro si affina nel fuoco; le persone sante si raffinano bel crogiolo della sofferenza”.
Lo stile con cui esprimi il tuo racconto (signorile e coinvolgente) è sublime, tutt’uno con il contenuto, di un affettuosissimo realismo.
Grazie a te, ricorderemo sempre Pia così, come questa persona vitale che tu ci hai riconsegnato.
Don Gianni
Che bellissimo ricordo di Pia! Hai trasmesso con tanta eleganza la sua essenza! Uno spirito indipendente, tenero, ribelle, determinato e divertente! GRAZIE Beatrice