Jean Vanier, l’Arche e una battaglia di principi…

da | 12/05/2019 | CONCETTI E PERCEZIONI | 0 commenti

Carissimi tutte e tutti, vorrei  condividere con voi, e con i lettori del sito qualche mia impressione.

In questi giorni si stanno susseguendo eventi che a mio parere hanno una grande valenza di significato: è morto Jean VANIER, colui che ha messo al centro della sua vita e de l’Arche gli handicappati mentali, il Papa lo ha ricordato mentre si trovava in visita a Skopije città natale di Madre Teresa.

Infine al Salone del Libro di Torino si sta svolgendo una battaglia di principi fra una concezione personalista e cristiana e una razzista e pagana …

In quest’ultimo contesto vi segnalo

  1. un’anticipazione di un intervento del frate Domenicano Inglese Timothy Radcliffe, una delle figure più prestigiose del Cattolicesimo attuale (già maestro generale dei Domenicani e docente a Oxford …).
  2. Un profilo di Jean Vanier tracciato da Riccardi, fondatore della Comunità di sant’Egidio …

Grazie per la vostra attenzione.

Salone del libro

Timothy Radcliffe: con Cristo, con gli invisibili

AVVENIRE  /  Timothy Radcliffe mercoledì 8 maggio 2019

L’intervento del domenicano alla kermesse torinese: «Dobbiamo dimostrare che capiamo la frustrazione e la rabbia di tanti e sfidare i presupposti che stanno alla base della cultura populista»

Il domenicano inglese, biblista e consultore del Pontificio consiglio Giustizia e pace Timothy Radcliffe terrà la lezione “Credere al tempo dei fondamentalismi” al Salone del Libro di Torino domenica 12 maggio, alle ore 15.30 in Sala Blu; parteciperanno Armando Buonaiuto e Lorenzo Fazzini. Nell’articolo che pubblichiamo in queste colonne il teologo, docente a Oxford e autore fra l’altro di Alla radice la libertà. I paradossi del cristianesimorecentemente edito da Emi, anticipa i temi dell’incontro. Programma completo su www.salonelibro. it.

Lo scorso mese di aprile un attore comico è stato eletto presidente dell’Ucraina. Dopo essere stato il presidente sullo schermo televisivo, è diventato il presidente reale.La distinzione tra virtuale e reale si è offuscata. Si è trattato di un grido di rabbia contro l’establishment politico. Una situazione simile ha portato al potere Donald Trump in America. Egli voleva «bonificare la palude » di Washington.Una ricerca condotta dall’European Council of Foreign Relations ha ravvisato che «i sentimenti pervasivi di alienazione e la sfiducia verso le classi politiche hanno raggiunto un livello così alto come mai prima d’ora». È diffuso il sentimento che l’élite politica e finanziaria è fuori dal raggio di azione della gente comune e non si preoccupa di quest’ultima. Il popolo vuole rovesciare questo status quo sebbene non vi sia un accordo su quello che dovrebbe prendere il suo posto. E così la ricerca sopracitata conclude che «il sistema politico europeo è scaduto in un imprevedibile campo di battaglia di alleanze costantemente volatili – tra gruppi che si alleano momentaneamente prima di rompere subito dopo tale alleanza». Il nostro tempo è diventato volatile e imprevedibile.

Nel 1919 il poeta irlandese W. B. Yeats scriveva un famoso poema in cui evocava una situazione di simile dissoluzione e collasso. Scrisse queste parole diventate famose: «I migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori / sono pieni di intensità appassionata».I peggiori oggi subiscono la tentazione delle motivazioni populiste che sono presentate con «un’intensità appassionata». I politici vengono guidati da slogan e tweet.In Gran Bretagna il parlamento sembra incapace di dibattere il nostro futuro, ipnotizzato da slogan senza senso come «La Brexit è la Brexit».

Perdonate, cari lettori, questa semplice evocazione della nostra situazione inglese. Non sono un esperto di politica o di sociologia e non ho lo spazio per ulteriori analisi sofisticate. Allora, domandiamoci: cosa può offrire la fede di fronte a questa rabbia e incertezza? Il cristianesimo sarà qualcosa di rilevante solo se sarà capace di fare due cose. Prima di tutto, noi dobbiamo dimostrare che capiamo la frustrazione e la rabbia che toccano un numero così grande di persone, altrimenti esse non ascolteranno nulla. In secondo luogo dobbiamo sfidare alcuni dei presupposti che stanno alla base della cultura populista, altrimenti quello che diciamo non avrà effetto. Per questo, per prima cosa noi dobbiamo mostrare che siamo vicini alla gente che si sente lasciata indietro. Sui loro iPhone queste persone vedono immagini di un mondo di benessere e privilegi dai quali si sentono esclusi. Non hanno né una voce né un futuro. Un gesuita francese, Étienne Grieu, afferma che «un mondo dominato dalla competizione impegna ciascuno in un incredibile compito di classificare non solo le performance ma anche le persone. Al livello più basso vi sono quelli che non sono abbastanza efficienti. Essi così diventano invisibili… Essi si sentono anche umiliati perché possiedono a malapena gli strumenti per dire chi sono».

Le proteste dei gilet gialli sono il simbolo del senso di invisibilità che milioni di persone sentono. Essi indossano questi giubbotti destinati a far diventare visibile chi li indossa per dire: «Guardateci!». Aprite i vostri occhi. Noi siamo qui. I giovani che sono in prigione e che si sentono esclusi si possono convertire a forme di islam radicale per la stessa identica ragione. Nella mia nuova fede io sono qualcuno. Muhammad Ali disse un giorno: «Io sono l’America. Io sono la parte che voi non vorrete riconoscere. Ma dovrete abiuravi a me. Un nero molto sicuro di sé, aggressivo. Con il mio nome, non quello che mi avete dato voi, la mia religione e non la vostra, i miei obiettivi. Vi dovrete abituare a me».

Mentre viaggiavo in aereo lo scorso anno verso l’Australia, veniva trasmesso un film che non volevo vedere. Ho pensato che avrebbe disturbato la mia pace mentale a 36mila piedi da terra: il titolo era Io, Daniel Blake.È la storia di un uomo normale che a causa della malattia sprofonda nella disoccupazione e finisce nel vortice della burocrazia inglese, fino a sparire. Appena prima di morire di un infarto prepara una dichiarazione per il tribunale del lavoro, che viene letta al suo funerale: «Non sono un cliente né un utilizzatore di servizi. Non sono un lavativo né uno scroccone, un mendicante né un ladro. Non sono un numero della previdenza sociale, neppure un bip né uno schermo. Non mi tiro in avanti il ciuffo ma guardo il mio vicino negli occhi. Non accetto né cerco l’elemosina. Il mio nome è Daniel Blake, sono un uomo, non un cane. E per questo domando i miei diritti. Domando che tu mi tratti con rispetto ».Ho pianto così tanto da mettere in allarme l’hostess.

Nel vangelo di Luca Gesù è nato a Betlemme perché l’imperatore voleva contare ciascun abitante per riscuotere le tasse. Si trattava di un esercizio di potere che nella Bibbia appartiene solo a Dio. La nascita del bambino viene rivelata dagli angeli, che nessuno poteva contare – una moltitudine, scrive Luca a quei pastori che non contavano niente. Nella società del tempo essi erano ai margini e disprezzati. Così il Vangelo prima di tutto venne offerto esattamente a quelli che nella nostra società si sentono invisibili e degni di nulla, coloro per i quali il fondamentalismo o il populismo diventano così attraenti. In secondo luogo, in questi tempi incerti e volatili, le posizioni populiste risultano attrattive perché indicano una causa con la quale è possibile identificarsi, specialmente se domanda un impegno totale. Si potrebbe trattare di una causa ammirevole, per esempio la Ribellione contro l’estinzione che è esplosa in Gran Bretagna alcuni mesi fa e che ha mobilitato centinaia di migliaia di persone preoccupati dalla minaccia dei cambiamenti climatici. O potrebbe essere una causa distruttiva, come quella del Daesh che ha attirato molti giovani convertiti all’islam grazie alle sue domande semplici e totalizzati. Il cristianesimo sarà attraente per coloro che si sentono invisibili se saremo capaci di chiedere loro un po’ di eroismo. Il cristianesimo sarà attraente per coloro che si sentono inutili e invisibili solo se oseremo chiedere molto.Se noi ‘commercializziamo’ il cristianesimo come un innocuo hobby che non impegna più di tanto, chi se ne darà pensiero?

Nel 2010 Xavier Beauvois ha realizzato il film Uomini di Dio.Raccontava la storia della piccola comunità di monaci trappisti di Tibhirine, in Algeria. Negli anni Novanta furono colpiti dalla violenza che aveva travolto il Paese. Questo film ha catturato l’immaginazione di milioni di persone. L’ho visto in un cinema di Oxford, insieme a un amico ateo (o agnostico, nelle giornate buone…). Alla fine del film c’era un silenzio totale. Nessuno osava uscire dalla sala per non rompere l’incantesimo. I monaci discutevano se rimanere in Algeria o tornare in Francia per salvarsi la vita. Sono rimasti e nel 1996 hanno subito il martirio. Gli spettatori erano affascinati perché vedevano persone comuni, come noi, decidere di rischiare tutto! I monaci hanno compiuto una scelta radicale. Hanno scelto la cosa più fondamentale: seguire Gesù. Se presentiamo la pericolosa avventura del cristianesimo, alcune persone prenderanno paura e scapperanno; altri invece si avvicineranno. Nessuno più butterà via il cristianesimo perché è una noia! Quindi, se vogliamo coinvolgere le persone in questo periodo di incertezza, la Chiesa deve dare prova di vedere le persone invisibili e di avere il coraggio di invitarle a seguire Cristo. Non è una religione che ti avvolge nella bambagia, il cristianesimo. Essa contraddice la cultura del benessere e della tranquillità. Dobbiamo anche sfidare gli assunti di questa cultura populista, la sua idea di identità e di come una persona si rapporta con persone di idee diverse. Ma questo… è un altro articolo!

Timothy Radcliffe

Frate Domenicano Inglese

Addio al fondatore dell’Arche

Vanier e il mistero della “forza” debole

AVVENIRE  –  Andrea Riccardi mercoledì 8 maggio 2019

Jean Vanier si è spento l’altra notte, dopo parecchi mesi di malattia,vissuta con un grande desiderio di vita, ma anche confrontandosi lucidamente nella fede con l’ombra della morte. Aveva scritto in un testo, pieno di sapienza esistenziale: «Nelle società odierne è impressionante il nesso esistente tra il rifiuto di guardare la morte in faccia e una grande paura della fecondità». Il fondatore dell’Arche e di Foi et Lumièreaveva messo la debolezza al centro: l’amicizia con i poveri, i disabili, i feriti della vita. Aveva scelto la debolezza come modalità di presenza nei crocevia del mondo: la fragilità della sua figura simpatica ma spoglia; la povertà e l’amicizia che lo caratterizzavano; la debolezza della parola, senza retorica ma capace di toccare il cuore.

Così, quest’amico dei disabili, instancabile organizzatore della loro convivenza con gli altri, è stato un ascoltato testimone del Vangelo in tante occasioni. Gli scritti che ci lascia manifestano, in parte, l’ampiezza della sua predicazione itinerante nel mondo. Nella debolezza, aveva trovato la chiave di lettura del Vangelo. Citando la “parabola del regno” di Matteo 25, scriveva: «Vivere con il povero è vivere con Gesù». «Gesù è il povero», concludeva. Gioiva del messaggio centrale di papa Francesco sui poveri. Mi ha detto durante il nostro ultimo incontro a Parigi, qualche giorno fa: «Voglio dire forte quanto amo papa Francesco!». Per lui i poveri non sono degli assistiti, ma comunicano il Vangelo con la loro “forza” debole: «Il povero ha un potere misterioso nella sua debolezza, diventa capace di toccare i cuori induriti». In piena sintonia con Francesco, anni prima di questo pontificato, affermava che «i poveri ci evangelizzano. Ecco perché sono il tesoro della Chiesa».

Attraverso un percorso diverso, raggiungeva quanto il teologo ortodosso francese, Olivier Clément, scriveva: i poveri sono un sacramento, perché in essi vive Gesù. E il fondatore dell’Arche ricordava che «il povero guarisce il cuore del ricco». Solo nell’amicizia con i poveri, il nostro mondo ricco potrà trovare la sua guarigione. Questa era anche la sua storia personale. La vita di Jean si era sviluppata nella costante ricerca dell’incontro con Gesù, come dichiarava con semplicità sorprendente.

Ancora anziano, fino alla fine, leggeva e rileggeva il libro su Gesù di José Antonio Pagola, un biblista basco: lo aveva aiutato –confessava – a conoscere meglio colui che aveva cercato, tutta la vita, nei poveri, nell’incontro con gli altri, nelle pagine della Scrittura. Vanier ha più volte raccontato che divenne marinaio inglese, volontario nella guerra (che conobbe nei suoi esiti dolorosi), perché voleva lottare per la pace e la libertà. Ma, nel 1950, si sentì chiamato a lavorare per la pace in altro modo, finché nel 1964 fondò l’Arche. Canadese di nascita, era figlio di un’importante famiglia cristiana, impegnata nella vita pubblica. Suo padre era stato ambasciatore a Parigi e poi governatore generale del Canada.

Da giovane, aveva conosciuto a Parigi, il nunzio Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, collega di suo padre, ed era stato suo ospite a Venezia, come amava ricordare. Jean aveva scelto la Francia, come luogo d’irradiazione della sua opera con forte apertura all’universale, come un altro grande “francese” d’elezione, frère Roger Schutz di Taizé. Aveva percorso il mondo per più di mezzo secolo a contatto con le fragilità, approfondendo un carisma di “compassione” per l’altro. Basta prendere in mano un suo piccolo libro, La dépression,per rendersi conto della sua capacità di immedesimarsi nel dolore della ma-lattia depressiva, così diffusa oggi: questa «depressione, questa forza dolorosa e tenebrosa che ci invade nel più profondo del nostro essere e sembra spandersi attraverso il nostro corpo…».

Testimone della compassione, vissuta nel rapporto personale, Vanier aveva seguito preoccupato il crescere degli odi e dei muri: «alla base di ogni muro, la paura», affermava. La sua ricca esperienza dell’umanità del XX e del XXI secolo lo portava a dire quanto il mondo contemporaneo sia carico di paura e, quindi, di violenza. Viveva sul terreno in rapporto stretto con i piccoli, ma aveva uno sguardo largo sullo scenario internazionale con una “geopolitica della compassione”, mai astratta o banale, mai rassegnata, ma partecipe dei dolori nella speranza di un mondo più fraterno. Era convinto che fosse possibile costruirlo, partendo dal piccolo e dall’amicizia, dalla “pietra scartata” che diventa testata d’angolo di una nuova costruzione sociale.

Dopo l’11 settembre, si era sentito sfidato. Lo si vede in un denso libretto sulla pace, in cui denunciava la crescita dei pregiudizi e dei conflitti tra religioni, culture e persone. Allora scriveva con parole che suonano come un testamento di “ottimismo” evangelico: «Il futuro del mondo sta nelle nostre mani. Dipende dal nostro impegno a lavorare insieme con gli altri per la pace. Costruire la pace è riscoprire una visione, un cammino di speranza per tutta l’umanità». Non si è condannati all’impotenza di fronte ai grandi scenari del mondo o a forze soverchianti: dal piccolo, dall’emarginato, dalla scelta quotidiana di ciascuno, parte una forza inarrestabile di pace e trasformazione, quella dei poveri e degli umili.

Riccardi

Fondatore e Responsabile, Comunità di sant'Egidio

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