IL CORTILE | ALLIEVI
Cordone Claudio
claudio.cordone@yahoo.co.uk |
1977 |
LONDRA |
08/11/1959 |
Sono nato ad Alessandria d’Egitto, seconda e pure terza generazione di un’altra comunità di italiani, e di altri mediterranei, che ormai non esiste più. La mia famiglia faceva già parte del mondo salesiano – mio nonno organista compose la musica per il matrimonio dei miei nella chiesa di Don Bosco. A Don Bosco ci andai a fare le elementari, mentre mia sorella, più piccola, andava ancora dalle suore di Maria Ausiliatrice. Alessandria era soprattutto mare, amici italiani ed egiziani con cui si parlava in francese, e il deserto. Ma poi anche noi abbiamo lasciato l’Egitto, nel 1968, per andare in Italia, a Milano e poi a Roma.
Con mio padre diplomatico siamo ritornati nel Medio Oriente nel 1970, approdando a Jeddah in Arabia Saudita. Niente scuole italiane: ho studiato a casa per un anno mentre mia sorella andava alla scuola francese. Nel 1970 prima visita a Beirut, in vacanza. Nel 1971 mi sono presentato alla scuola a dare gli esami da privatista per entrare nella seconda media, incontrando Sergio Daneluzzi, anche lui spuntato lì dopo un paio d’anni di studio da solo. E cosí nell’ ottobre del 1971 sono diventato un “interno”, quattro per camera nel nuovo piano appena completato della scuola – i fratelli Paolo e Alberto Chiari e Lorenzo Castelli tra i miei coinquilini. Don Dore e don Saggiotto erano nostri insegnanti e ci seguivano da interni, poi è arrivato don Caputa.Per Natale e a Pasqua tornavo a Jeddah, viaggiando spesso con vari don – di sicuro don Carboni, don Praduroux e don Bedon – che venivano in incognito per celebrare le varie messe, mentre io viaggiavo con ostie e calici contando sul mio passaporto diplomatico perchè non aprissero la valigia.
A Beirut stavo per l’anno scolastico, d’estate tornavo in Arabia Saudita – tanto mare e non molto altro. La vita da interno alla scuola era molto regolata, ma non mi è mai pesata. Con quello che ho sentito da coetanei di altre scuole, la scuola salesiana di Beirut era all’avanguardia! Mi pare fosse nel 1972 che arrivarono le ragazze della “femminile”. Mi ricordo di avere detto a qualcuno che forse non era una buona idea perche’ sarebbero state una distrazione (dalla serietà degli studi, presumo). Meno male che sono venute… In classe nostra tra le più distraenti erano Carla e Marina Rotta Loria, “le gemelle”, come le chiamavamo. Ma per me era Marina che contava…
Di quegli anni il più significativo è stato il 1974-1975, quando con Sergio ci ritrovammo ad essere i soli due interni. La nostra camera era diventata il nostro mondo. Conversazioni serali serie e meno serie sul balcone che dava sul cortile, Neil Young nel registratore. Lunghe passeggiate con don Caputa o Pireddu nel cortile o in città a parlare di un po’ di tutto. E camminate giù verso il mare, passando attraverso l’ACS con la speranza di incrociare qualche ragazza americana. Oppure lo stare semplicemente appollaiati sui famosi “ferri” in cortile subito dopo le scale. Non avevamo da preoccuparci delle necessità quotidiane. Forse tutto questo ci ha pure un po’ “viziato” – ci potevamo permettere studi e divertimenti, e immaginarci il futuro senza avere responsabilità per il presente.
Poi tutto è cambiato con la guerra civile. Un altra realtà si è presentata per il mio ultimo anno, il 1975-76. I miei sono arrivati da Jeddah quell’estate e così mi sono trasferito all’ “esterno”, in Verdun. Con l’incertezza i più sono partiti, ma noi che siamo rimasti abbiamo avuto il lusso di avere tutti gli insegnanti per noi – in classe eravamo in tre, Paola Roncaglia, Rita Toiani ed io! Anche mia madre divenne insegnante di francese per quell’anno, con don Morazzani in carica. E fuori, con Giuseppe Pigozzi facevamo il turismo da guerra, e avevamo le nostre simpatie…
Finito l’anno scolastico, con la scuola colpita da cannonate e l’arrivo dei siriani, andai con mia madre e mia sorella in esilio estivo prima in Egitto e poi in Grecia. In Agosto ci arrivò la notizia che mio padre era stato ferito dal colpo di mortaio sulla scuola che uccise don Paoloni e Antoun – stavano parlando tutti e tre in cortile – e ferì don Amateis, tra vari altri. Così andammo a Damasco, dove mio padre e don Amateis furono portati all’ospedale italiano. Ricordo di aver trascorso qualche notte in ospedale anch’io, perchè nel frattempo Sergio, che era in quel momento a Damasco con il padre, ci era finito anche lui per una pericardite!
Per finire il liceo all’estero andai alla scuola italiana di Atene, sempre con mia madre e mia sorella, mentre mio padre tornò a Beirut, temporaneamente “pacificata” dai siriani. All’esame di maturità a Atene ho ritrovato Enrico Serafíni, dei primi anni di Beirut, poi andato a Tehran. E finalmente sono approdato in Italia, a studiare legge alla Sapienza di Roma. Posso dire di essere “diventato italiano” durante questi anni, anche se mai veramente “integrato”. Ho fatto una tesi in filosofia del diritto sui diritti umani, perseguendo gli interessi delle camminate serali di Beirut piuttosto che qualcosa di economicamente più adatto.
Ma il Medio Oriente ed il Libano in particolare non l’ho mai veramente lasciato. A Beirut ci sono tornato varie volte, specialmente durante le vacanze di Natale, e durante uno di questi viaggi ho incontrato Oona, una delle americane dell’ACS (per metà libanese) e ci siamo sposati vari anni più tardi. Ho poi deciso di andare a Washington negli USA per un paio di anni di studi sul Medio Oriente – e paradossalmente là ho anche studiato l’arabo per bene, finalmente!
Finiti gli studi volevo lavorare sui diritti umani e sul Medio Oriente, e qualche mese dopo avere lasciato gli USA ho preso il mio primo posto con Amnesty International a Londra, nel 1985, come ricercatore sul Medio Oriente. Per nove anni mi sono ritrovato in luoghi familiari, occupandomi tra altri paesi di Israele e Palestina nel pieno della prima intifada. E così spesso comparivo a Betlemme o Nazareth, o a Cremisan, ritrovando don Dore e don Saggiotto, don Caputa e don Amateis, e altri. Ricordo la rabbia quando don Amateis è stato dato per morto nel 2002 durante i combattimenti a Betlemme, notizia poi rivelatasi infondata. Sono anche tornato regolarmente in Libano per stare con la famiglia di mia moglie oppure “professionalmente” per Amnesty – il massacro di Qana nel 1996, la liberazione del Sud nel 2000 e l’ultima guerra del 2006.
Nel 1997 ho lasciato Amnesty per un anno per dirigere l’ufficio dei diritti umani della missione UN in Bosnia – ritrovandomi a “comandare” un centinaio di poliziotti di tutte le nazionalita’ intenti a riformare la nuova polizia bosniaca. Pensavo che Sarajevo con le sue moschee, chiese ed una antica comunita’ ebraica avrebbe avuto qualcosa di Beirut, ma le affinita’ erano poche. E non c’era il mare.
Nel 2003 Oona e mia figlia Chiara, che ora ha 13 anni, hanno trascorso un anno a Beirut per stare con la nonna nei suoi ultimi mesi, e io ho fatto da pendolare tra Londra e Beirut. Nel 2003 sono anche stato in Iraq, dove mio padre era andato sperando di fare qualcosa di positivo per i beni culturali iracheni nella caotica amministrazione americana, e ho quasi pensato di rimanere con la missione UN a Baghdad prima che la facessero saltare in aria uccidendo e ferendo vari amici.
Ora ad Amnesty sono responsabile della ricerca e delle strategie su tutti i paesi, portate avanti dai cinque dipartimenti regionali che corrispondono grosso modo ai cinque continenti. Ma tra Guantánamo o il Pakistan o il Kenya in un modo o nell’altro finisco spesso col gravitare verso il Medio Oriente e il Libano – e a Beirut verso il gran bell’ufficio di Berta Araman in particolare, quando posso!
Vivo sempre a Londra, viaggio parecchio, e l’italiano lo uso praticamente solo quando vengo in Italia. Che vuol dire a Roma, dove sono mia madre e mia sorella (mio padre non c’è più dal 2004) ma più spesso nella nostra casa di campagna in Toscana.
Beirut è cambiata ovviamente tanto dai tempi della scuola, ma quando ci torno provo spesso a ripercorrere certe strade e rivedo quasi automaticamente le immagini degli anni settanta. Ci tengo specialmente a scendere sulla corniche per guardare il mare e le montagne sullo sfondo, con alle spalle l’università americana e più indietro, verso l’alto, il luogo dove c’era la scuola.
Fa una strana impressione sapere che la maggior parte della gente che incontri per strada a Beirut non ha mai conosciuto la Beirut di allora. No so se alla fine la Beirut di allora fosse veramente meglio della Beirut di oggi, con tutte le sue contraddizioni, violenze ed incertezza sul futuro. Ma bene o male era la nostra Beirut, con la nostra scuola, e come tale avrà sempre un posto unico nei nostri ricordi e nei nostri affetti.