Ci ritroviamo al punto di prima…
Il nostro esimio Webmaster, alla ricerca di qualcosa da pubblicare sul sito e curioso della vita di tutti in tempo di Covid, mi chiede di descrivere la mia esperienza a Milano. Al Webmaster in linea di massima si obbedisce; per cui ci provo.
© Foto originali di Sergio
Primo articolo di una serie dettata dalla situazione attuale, preoccupante anche se strana per tanti motivi. Nessuno sa ancora quando finiremo di fare i quattromila passi in casa o sul terrazzo, sul tetto o in giardino. Da soli o accompagnati e con la mascherina sul naso.
Come sempre Sergio racconta con il pennello sul bianco della tela, colori sempre vivaci, una maestria nel mettere le frasi nella giusta proporzione, un quadro sempre molto accurato e facile da leggere e da interpretare.
Grazie Sergio, come sempre il primo canestro è sempre il tuo…
Il nostro esimio Webmaster, alla ricerca di qualcosa da pubblicare sul sito e curioso della vita di tutti in tempo di Covid, mi chiede di descrivere la mia esperienza a Milano. Al Webmaster in linea di massima si obbedisce; per cui ci provo.
La prima cosa da dire, per quel che mi riguarda, è che sono stufo. Questa storia va avanti dai primi giorni dello scorso mese di marzo (ma era iniziata assai prima). Allora mi ero fatto una settimana abbondante confinato in città nel mio sgangherato monolocale – che è sostanzialmente immutato dai tempi dell’università – per essere sicuro di non poter eventualmente contagiare la mia ormai anzianissima madre, a casa sul lago. Un bel giorno, in pieno lockdown, munito del contorto modulo di autocertificazione e timoroso degli annunciati posti di blocco, ho preso la macchina e sono tornato alla casa “vera”, sul lago, appunto. Non mi ha fermato nessuno. Ho aperto la portiera, ho messo i piedi sull’erba del giardino e ho tirato un sospiro di sollievo. Forse mi tremavano un poco le gambe. Poi mi sono seduto in poltrona e mi sono fatto un bicchiere di Friulano.
Difficile descrivere l’atmosfera di quei giorni, il senso di spaesamento generale, le bare caricate sui camion dell’esercito a Bergamo. Per sicurezza ho continuato a stare distante da mia madre (piani diversi) per altre due settimane. Ho pensato spesso a come ero stato fortunato. Mentre a Milano, come altrove, famiglie intere si stipavano in spazi limitati, costrette a portare a passeggio il cane a turno per respirare un poco di aria cattiva, io mi trovavo in una casa ampia con un giardino dove camminare. Vedevo il lago, immoto e vuoto, senza nessuno, senza neppure una vela, come si fosse stati in Nuova Zelanda.
Potevo andare a fare la spesa senza problemi e sostanzialmente senza code. Potevo andare in paese a prendere il giornale o in farmacia, facendo una lunga passeggiata panoramica. Lavoravo “agile” da casa al 100%. Nonostante il periodo, qualcosa da fare c’era e si è scoperto – appunto – che era assolutamente possibile farlo da casa come dall’ufficio. Poi ho messo in ordine, ho pulito e ri-sistemato la biblioteca – cosa che non facevo da decenni – ho ridipinto alcune persiane, messo in ordine tutto.
La sera scaricavo e ascoltavo in poltrona dischi di jazz, magari bevendo qualcosa. Una volta alla settimana ascoltavo su YouTube i concerti online del mio chitarrista preferito, l’ormai venerabile Jorma Kaukonen, che ogni sabato, in quarantena, si esibiva da casa per gli ormai attempati fan. Una volta alla settimana mi collegavo in Zoom con i “vecchi” della squadra di basket – quelli che come me non giocano più. Qualche volta telefonavo a un amico. Messaggiavo con Whatsapp. In tempo di pestilenza mi sono riletto tutto il Decameron (mi è piaciuto molto di più della prima volta…) e ho letto il Journal of the Plague Year di Defoe (stupendo) e La Peste di Camus.
A volte non riuscivo proprio a fare nulla. Aspettavo il bollettino serale con il numero dei nuovi contagi e dei morti e restavo come inebetito, sollevato dal fatto dall’essere ben lontano dal disastro. Ci si abitua a tutto. Chi ha visto sul posto l’invasione Turca di Cipro e i prodromi degli événements libanesi è naturalmente un poco avvantaggiato. Sa che c’è sempre di peggio: ci sono coprifuoco e coprifuoco.
È stato un periodo strano, immerso in un senso di irrealtà e in qualche modo di colpa. È passato molto in fretta, nonostante tutto. Già a fine aprile ho chiesto di poter tornare in ufficio a Milano, uno o due giorni alla settimana. Non so per quanto tempo ancora ho un ufficio con vista su Piazza del Duomo, e mi mancava. Poi pian piano è arrivata l’estate, le cose sono migliorate, con la mia compagna siamo andati in vacanza in Abruzzo. Una bella atmosfera e bellissimi posti, nonostante gel e mascherine.
Sembrava che fosse finita e invece no: da un lato i comportamenti irresponsabili di troppi giovani e meno giovani, dall’altro l’inadeguatezza della loro rappresentanza istituzionale, specie a livello locale, con un unico problema: il consenso. Questa parte d’Italia, così impettita e orgogliosa dei suoi primati nazionali e del suo standing internazionale, ha dimostrato in realtà una desolante incapacità di affrontare scenari complessi con qualche capacità o lungimiranza.
Ci ritroviamo al punto di prima. Di nuovo si è tentennato prima di prendere le misure necessarie, che assunte tempestivamente avrebbero salvato sia le vite sia le attività economiche. Di nuovo ci sono decine di morti ogni giorno e ci saranno migliaia di fallimenti. Il prezzo che i meno fortunati pagheranno sarà altissimo e molti porteranno cicatrici invisibili quanto indelebili.
Proprio mentre mi preparavo a rientrare a tempo pieno a Milano quindi, mi ritrovo nuovamente a passarci pochi giorni alla settimana. Ormai non si può più uscire la sera, ma da qualche tempo non vado più a cena fuori. Nei ristoranti non mi sono mai più sentito sicuro. Non credo affatto che un metro di distanziamento possa essere sufficiente. La mia vita qui è scandita da una serie di accorgimenti pratici un po’ ossessivi. Vado in giro sempre con la mascherina, ci mancherebbe altro, ma ne porto con me anche una di quelle rinforzate che proteggono in ingresso: la indosso ogni qualvolta entro in un supermercato o in un contesto dove sia presente un certo numero di persone.
Non prendo i mezzi pubblici, a meno che non siano tram semivuoti con i finestrini aperti. Vado e torno dal lavoro in bicicletta, utilizzando l’ottimo sistema di bike-sharing che Milano fornisce ormai da qualche anno. Le nuove bici rosse a pedalata assistita sono una meraviglia, vanno come delle schegge e sono molto divertenti da condurre. Le piste ciclabili sono ormai parecchie e – nonostante il disturbo provocato dagli ormai onnipresenti e pericolosissimi monopattini – svolgono egregiamente la loro funzione. Riesco a coprire distanze anche notevoli in pochi minuti – almeno finché non mi schianterò contro la portiera di qualche auto… All’arrivo aggancio la bici alla rastrelliera, controllo che l’operazione sia regolarmente conclusa, mi spalmo bene le mani di gel (chissà chi ha toccato la bici prima di me…) e me ne vado al lavoro, dove mi provano la febbre all’ingresso del palazzo.
Arrivato in ufficio mi ri-lavo le mani e mi accingo a iniziare la giornata. Guardo dall’alto Piazza del Duomo e valuto il numero di persone presenti, un po’ come se osservassi una veduta del Canaletto. Una volta era decisamente troppo affollata, in una deriva alla Piazza San Marco… Ora si avvia ad essere di nuovo vuota. Naturalmente la bellezza si apprezza di più quando c’è meno gente, i luoghi assumono un aspetto metafisico e per la città si gira meglio. Ma Milano non è più la stessa. Speriamo che tutto questo le serva a migliorare in futuro, ad essere meno avida di eventi chiassosi e occasioni di profitto immediato e più attenta alla qualità di vita di tutti: gli spazi di miglioramento sono molti ed evidenti.
Il mio lavoro aveva a che fare con tutto questo e spero possa continuare ad averlo anche in futuro. Certo, i rapporti con l’estero, la promozione, i viaggi, gli incontri… tutte queste cose sono sospese e non si sa quando e se riprenderanno. E tutto sarà sicuramente diverso, non sarà mai più come prima. Da poco abbiamo completato la candidatura per la UEFA Nations League dell’anno prossimo. Potrebbe essere uno dei primi eventi significativi del 2021, ammesso e non concesso che nel frattempo la situazione si normalizzi.
Ormai è passato un anno. Nel frattempo ho compiuto i 60. Ogni tanto ho la sensazione che mi risveglierò da tutto questo per scoprirmi vecchio. Quando di nuovo si potranno fare le solite cose – chissà quando – forse me ne sarà passata la voglia. Si continua a fare riferimento a un “prima” rendendosi conto al tempo stesso che quel “prima” non esisterà più. È strano, sembra proprio un sogno. Non si incontra mai nessuno. Non si può più dare un bacio a una collega o a un’amica. Oggi è stato introdotto il lockdown completo, la “zona rossa”. E il tempo passa, passa.
CI HANNO SCRITTO