Libano 2014: verso quale futuro?

Jounieh Lebanon

Carissimi ex tutte e tutti, essendo stato informato che un mio recente (lungo) articolo sul Libano è stato recentemente pubblicato sulla rivista Da Qui, n.9 (pubblicazione occasionale su tematiche mediterranee, Ed. Laboratorio Poiesis, Alberobello. BA), mi permetto di inviarlo, qualora potesse interessare qualcuno dei frequentatori del sito. Riprende nella prima parte il testo di una mia conferenza del 2010. E’ datato a marzo e quindi non tiene conto degli ultimi sviluppi, alcuni previsti, della realtà libanese.

Grazie per l’attenzione.
don Vittorio Pozzo

 

Don Pozzo

Salesiano, SSB

Libano 2014: verso quale futuro?

(di Vittorio Pozzo)

Nella seconda metà del XVI secolo compare un primo e chiaro abbozzo di organizzazione di uno Stato specificamente libanese con la creazione dell’emirato del Monte Libano (il Piccolo Libano) al quale l’Impero ottomano accorda una certa autonomia. Da allora, fino alla creazione del Grande Libano ad opera della potenza mandataria francese nel 1920, su esplicita richiesta dei libanesi capeggiati dal patriarca maronita al-Howayyek, fino al 1943, quando il paese ottenne l’indipendenza, fino ad oggi, passando per la lunga e dolorosa esperienza della guerra civile (1975-1990), il Libano si è sempre distinto per la sua specificità che non  ha riscontro in altri paesi del Medio Oriente. La Siria geografica, ad esempio, che inglobava pure il Libano e la Palestina, e che contava gruppi etnici distinti, tra cui curdi e turcomanni, non era mai stata costituita in Stato, ma era divisa in province (wilayât o pashalik) con frontiere variabili a piacimento della Sublime Porta e non conseguì la configurazione attuale, in base agli accordi Sykes-Picot del 1916,  se non dopo il crollo dell’Impero ottomano e la spartizione anglo-francese del Medio Oriente.
Questo premessa di carattere storico è necessaria per capire il Libano attuale nella fase politica e sociale che sta attraversando e i rapporti esistenti tra le diverse entità socio-culturali e religiose che lo compongono e interagiscono.

Il volto politico e sociale del Libano odierno

Le premesse

Abituati, nel passato in particolare, a sentir parlare del Libano come Svizzera del Medio Oriente, qualcuno si immaginava o si immaginerà un paese dai paesaggi montani mozzafiato, da un benessere diffuso, da un efficiente sistema bancario, favorito dal segreto, da accordi che permettono a vari gruppi umani di vivere pacificamente la loro differenza… La realtà era, e lo è soprattutto oggi, assai più prosaica e complessa, ma non per questo meno affascinante.
Lasciando da parte gli stereotipi e anche gli aspetti che facevano del Libano negli anni Cinquanta  e Sessanta del secolo scorso una ricercata meta turistica, ci concentriamo su quelli che formavano e formano tuttora la vera ricchezza del paese, cioè la configurazione della sua popolazione. Quasi tutte le minoranze presenti in Libano si trovano pure, in proporzioni diverse, in altri paesi del Medio Oriente, ma nessuno presenta una concentrazione così alta (18 comunità) in uno spazio così ristretto e per di più montagnoso (10.452 kmq, cioè poco più della metà della Puglia, con una popolazione quasi identica,  di 4 milioni). In breve, il Libano è un paese di minoranze, di cui nessuna è stata ed è in grado di sopraffare o fagocitare la altre, ma anche, per questo fatto, tendenti facilmente a cercare appoggi esterni. La sua storia è la storia delle comunità che lo compongono: da qui l’enorme difficoltà a presentare una lettura unitaria della storia nazionale. Ogni comunità ha la sua storia e ne fa una lettura piuttoso univoca e non sempre oggettiva e serena.
A parte ciò, in nessun altro paese della regione quest’insieme di minoranze gode di diritti e privilegi – ovviamente accanto a doveri – riconosciuti dalla Costituzione. Il motivo è semplice: non è che queste comunità si siano accordate per dare origine a uno Stato che si chiama Libano (come, as esempio,  la Confederazione Elvetica è nata dalla volontà congiunta dei diversi cantoni), ma è lo Stato unitario libanese che è nato a salvaguardia dell’esistenza delle sue componenti nella loro specificità e complementarità. Il merito va alla Francia la quale, creando il Grande Libano sotto prevalente spinta cristiana, ha voluto sì favorire i cristiani, allora in maggioranza, e in particolare la loro principale componente, quella maronita, ma dando al paese una Costituzione laica (1926), non ha legato il potere a una religione determinata, ma ha lasciato spazio per tutte le componenti religiose presenti, accordando loro uguale dignità e rispetto. Si instaurò così il sistema comunitario che sfociò gradualmente nel confessionalismo politico e nel consociativismo.

La vita politica del paese fino all’indipendenza fu ovviamente condizionata dalla presenza e dagli interessi della potenza mandataria, ma fu pure il campo sperimentale per assumere e portare a maturazione principi, valori e atteggiamenti che sarebbero diventati i pilastri della società nazionale, dettandone gli orientamenti di base, primo fra tutti la volontà dichiarata di “vivere insieme” e di dare corpo a questa realtà attraverso intese e adeguate strutture politiche.
Non fu un passo naturale per tutti. La creazione del Grande Libano, al quale vennero annessi territori amputati dalla Siria geografica (si pensi alla Beqaa e alla città di Tripoli, da sempre chiamata Tripoli di Siria ed ora capitale del Nord del Libano e seconda  città del paese; Beirut stessa non aveva mai fatto parte del Piccolo Libano…), non fece l’unanimità. Se i cristiani applaudirono, i musulmani si videro separati dal loro retroterra naturale e fecero all’inizio resistenza. Solo gradualmente le élites politiche, sunnite in particolare, assunsero la nuova realtà e la fecero propria. Oggi, a quasi cento anni di distanza, lo slogan della principale corrente sunnita, la Corrente del Futuro che fa capo all’ex  Primo ministro, Saad Hariri, figlio dello statista ucciso nel 2005, è “Libano anzitutto”.
I musulmani cominciarono a guardare di meno ad oriente e i cristiani di meno ad occidente, ma lo slogan “né Oriente, né Occidente” non bastava per fare uno stato. Occorreva trovare una formula che garantisse un’equa spartizione del potere, salvaguardando le specificità proprie di ogni comunità. Si giunse così al Patto nazionale del 1943 tra cristiani e musulmani, atto fondante dell’indipendenza, ma ritenuto pure da alcuni, dopo la triste esperienza dell’interminabile guerra civile, la fonte di molti mali o, per lo meno, di numerosi equivoci.

Evidentemente si tratta di un giudizio sommario su una realtà assai più complessa. Di fatto, il Patto nazionale consacrò un predominio maronito-sunnita, incarnato a volte in grandi famiglie feudali che, con il passare degli anni, suscitò disagio e malumore in alcune comunità o ambienti che si ritennero emarginati o defraudati. Lo Stato libanese passò così attraverso ripetute crisi, superate quasi sempre “alla libanese”, cioè mediante compromessi temporanei cui non è estranea l’alchimia della lingua e gramamtica araba. Da notare inoltre che nessuna crisi, dagli anni Cinquanta in avanti, è separabile dal contesto regionale e mondiale: creazione dello Stato d’Israele e crescente presenza armata palestinese, guerra fredda, ingerenza crescente degli Stati Uniti. La visione che ci si faceva del paese e del suo ruolo era in balia delle ideologie allora dominanti: da un lato l’immersione nel nazionalismo nasseriano e il panarabismo in funzione antisraeliana e antimperialista, dall’altra il sogno velleitario di fare di Beirut una Montecarlo orientale e del Libano un paradiso fiscale e bancario, in un clima di liberalismo sfrenato, riducendo lo Stato a un fantasma innocuo in un paese mercantilistico e nulla più.

Le due crisi più acute furono quella del 1958 (una mini-guerra civile) e quella della grande guerra civile che durò 15 anni e che portò, nei testi ma non sempre nelle mentalità e nella prassi, a una rifondazione dello Stato. In entrambi i casi, se il “maronitismo” politico che sembrava dominare dopo l’indipendenza, venne ritenuto da molti la causa di tanti mali e per questo combattuto, non fu certo l’unico punto debole. La guerra non fu mai una guerra di religione, ma venne dettata da obiettivi politici, anche se il paese  si trovò di fatto spaccato sul fronte religioso: il campo cristiano da una parte e quello musulmano dall’altra. Le strutture statuali si rivelarono fragili, inadeguate, si sciolsero come neve al sole a cominciare dall’esercito, e la classe politica, miope e spesso corrotta, si mostrò incapace di trovare soluzioni, per non parlare di tutti coloro  che fecero della guerra un affare (i cosidetti “signori della guerra”).

Con gli accordi di Ta’if (in Arabia Saudita) nell’ottobre 1989, dopo il fallimento della gestione siro-americana e successivamente israelo-americana della crisi (occupazione siriana dal 1976, israeliana del 1978 e 1982), il fallimento pure della Forza multinazionale (con partecipazione italiana) e di ripetute conferenze ed accordi, si pose finalmente fine al processo di disintegrazione del paese. La pressione americo-saudita la spuntò: un documento d’ “intesa nazionale” venne adottato e poco dopo un presidente della Repubblica, René Moawad, venne eletto per formare un governo di “riconciliazione nazionale”. Il neoeletto presidente fu subito assassinato e immediatamente sostituito da un nuovo, Elias Hraoui, come per dire che il caos era, o doveva, assolutamente finire. La popolazione, stanca della guerra, e non tutta, soprattutto nel campo cristiano, ugualmente convinta dei risultati raggiunti, sperava solo di avere un po’ di pace e di sicurezza, passando sopra alla vera indipendenza, compromessa dalla massiccia presenza militare siriana. L’opinione pubblica finì per convincersi che non vi erano alternative.
Con Ta’if si chiudeva un’epoca e sarebbe dovuta nascere una nuova Repubblica: la Seconda Repubblica. A che punto siamo oggi?

Da Ta’if a Doha

Ta’if modificò profondamente le strutture politiche del paese, riequilibrandole a favore dei musulmani. Non poteva essere diversamente, tanto più che i cristiani avevano perso la guerra. I poteri del presidente della Repubblica, maronita, vennero ridimensionati a favore del Consiglio dei ministri, presieduto da un sunnita, come pure la maggioranza riconosciuta prima ai cristiani nel Parlamento e nei posti pubblici di prima categoria (a ragione di 5 a 4). Benché i cristiani fossero ormai in minoranza, si videro mantenuti alcuni posti di primo piano come la presidenza della Repubblica e il comando dell’esercito, ma soprattutto si sancì la parità tra cristiani e musulmani (uguale numero di deputati e di ministri), nella prospettiva dell’abolizione del confessionalismo politico, ma senza fissare scadenze o modalità concrete. In vista della futura deconfessionalizzazione dello Stato si approvò pure la creazione di una seconda Camera, il Senato, che non ha ancora visto la luce,  formato da rappresentanti delle varie comunità, con eventuale diritto di veto su alcune questioni. Altri punti importanti furono la solenne dichiariazione di riconoscere il Libano come “patria comune e definitiva per tutti i suoi figli” e il rifiuto dell’integrazione dei rifugiati palestinesi. Questi accordi entrarono in seguito nella Costituzione sotto forma di preambolo.

A venticinque anni da Ta’if, chiediamoci ancora: dove siamo? Questi accordi hanno veramente contribuito a risolvere i mali endemici del paese o a migliorarne la situazione? Bisogna riconoscere che l’applicazione di questi accordi fu monca e selettiva, primo fra tutti il mancato ritiro, almeno parziale dei siriani, contribuendo così ad irrigidire le posizioni in chiave spesso confessionale. Sotto il peso dell’egemonia, della presenza militare siriana e dei suoi servizi segreti, lo squilibrio a svantaggio dei cristiani venne accentuato, favorendolo con una legge elettorale iniqua o imponendo l’elezione di deputati o la scelta di ministri prosiriani, pur nel rispetto apparente dei numeri. Persino la Costituzione venne modificata due volte su ordine siriano per riconfermare o prolungare il mandato del presidente della Repubblica in carica. Questa fu la prassi vigente, a volte sotterranea, ma per lo più imposta in modo brutale, fino al 2005 quando, in seguito all’assassinio di Rafic Hariri ed alla susseguente rivoluzione dei cedri e della pressione internazionale, i siriani si ritirarono precipitosamente dal Libano. Solo dopo questa data è possibile parlare di elezioni libere e democratiche, pur permanendo il peso della tradizione, per quanto riguarda il ruolo ineludibile di personaggi o clan familiari nelle principali comunità (i Gemayyel, i Franjieh e  i Chamoun tra i maroniti, i Murr tra i greci ortodossi, i Karamè tra i sunniti e ora i Hariri, i Joumblatt e gli Arslan tra i drusi, Nabih Berry, da oltre venti’anni presidente del Parlamento, tra gli sciiti). Nel 2005  un’amnistia permise a leader cristiani come Samir Geagea di uscire di prigione, o al generale Michel Aoun di rientrare dall’esilio. Il risultato fu che si ritrovarono in primo piano quasi tutti  gli  ex “signori della guerra”, sia cristiani che musulmani, impedendo un vero ricambio generazionale della classe politica e l’apporto di novità di pensiero e di prassi. Nel frattempo, le Nazioni Unite erano intervenute ripetutamente, su spinta franco-americana, con risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, in particolare la 1559 del 2004 e la 1683 del 2005, richiedenti l’estensione dell’autorità dello Stato a tutto il territorio nazionale, soprattutto al Sud, lo smantellamento di tutte le milizie ancora esistenti nel paese, con chiara allusione a Hezbollah e ai Palestinesi armati fuori dei campi, e il ritiro di tutte le truppe straniere, cioè quelle siriane e israeliane. Queste ultime si erano già ritirate dal Sud nel 2000, ma mantenevano e mantengono tuttora l’occupazione di un piccolo territorio ai piedi del monte Hermon.

Fin che la Siria era presente, era impossibile toccare Hezbollah o mandare l’esercito al Sud. Fu solo dopo il suo ritiro che il fronte antisiriano, sostenuto dalla convinzione che la Siria fosse stata il mandante dell’assassinio di Hariri e degli altri numerosi assassini politici, si consolidò, raggruppando la quasi totalità dei sunniti, la stragrande maggioranza dei cristiani e la principale componente drusa, lasciando nel campo avverso le due principali componenti sciite,  Hezbollah  e il partito Amal, oltre ad altre formazioni minori. Nacquero così le due grandi coalizioni, dette dell’8 marzo e  del 14 marzo, dalla data di due manifestazioni oceaniche del 2005, una prosiriana e l’altra antisiriana. In questa situazione, il successivo ed inatteso voltafaccia del generale Aoun, principale leader cristiano, provocò un vero terremoto  politico che confuse le carte e sconvolse le regole del gioco e le alleanze. Dettata, a suo avviso, dall’interesse del paese, – dalle sue smisurate ambizioni politiche secondo i suoi avversari  – la sua alleanza con Hezbollah con la firma di un “documento d’intesa” nel febbraio 2006, mirava, tra l’altro, a “stornare” il grande partito sciita dalla Siria. L’effetto, con il passare degli anni, fu esattamente l’opposto: Hezbollah portò Aoun, già promotore della guerra di Liberazione contro la Siria nel 1989, nel girone siriano, fino a farlo ricevere a Damasco con tutti gli onori. Fu uno dei segni della ripresa di un influsso siriano allargato e strisciante che continuò in modo  crescente fino allo scoppio della crisi del 2011 in questo paese.

A questa situazione confusa si aggiunse una grave crisi all’interno del governo Siniora (un fedelissimo di Hariri) che presiedeva un governo di unità nazionale, dove però si era in disaccordo su quasi tutto. Dal dicembre 2005. i ministri sciiti di Hezbollah e Amal cominciarono a boicottare il governo che reclamava la formazione di un tribunale internazionale per giudicare gli autori dell’assassinio di Hariri  e degli altri omicidi eccellenti. Persino il presidente prosiriano, Emile Lahoud, rifiutò di firmare. Da allora, questo tribunale costituì per molti una vera ossessione, ma la giustizia internazionale cominciò a seguire il suo corso.

Con lo scoppio inatteso della guerra Israele-Hezbollah nel luglio 2006 e la sua conclusione con una “vittoria divina” per Hezbollah, ma con la distruzione effettiva di buona parte delle infrastrutture del paese e un quarto della popolazione sfollata, cominciarono a levarsi voci su una inevitabile resa dei conti da parte del partito di Dio, pur tra espressioni di ammirazione per la coraggiosa resistenza opposta per 34 giorni al più potente esercito del Medio Oriente. La risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza pose fine alle ostilità e richiese il dispiegamento dell’esercito libanese al Sud, affiancato da una forza ONU potenziata. Ciò che avvenne effettivamente, permettendo l’immediato avvio della ricostruzione. Tuttavia i nodi politici rimanevano irrisolti, per cui Hezbollah e i suoi alleati, convinti che l’attacco è la miglior difesa, anziché rendere conto, lanciarono una violenta campagna contro il governo e i cinque ministri sciiti diedero le dimissioni. Ignorate dal governo che andò avanti deciso e approvò lo statuto del tribunale internazionale, successivamente istituito dal Consiglio di Sicurezza, provocarono una crisi istituzionale, aggravata dalla ripresa degli assassini politici (il deputato Kataeb, nonché ministro del Lavoro, Pierre Gemayel).
Con una grande manifestazione dell’opposizione e l’inizio di un sit-in che paralizzò il centro di Beirut per 18 mesi, il braccio di ferro minacciò di sfociare nella formazione di un governo parallelo, spaccando il paese sul piano istituzionale e riportandolo sull’orlo della guerra civile. Persino il Parlamento, presieduto dal leader sciita dell’opposizione, Berry, fu chiuso e fu impossibile, per mancanza d’intesa, procedere all’elezione del nuovo capo dello Stato .

Che la situazione fosse esplosiva lo dimostrano i fatti della primavera del 2008. Il governo, per affermare la sua legittimità e la sua autorità, decise, imprudentemente, di smantellare la rete  telecom montata e gestita autonomamente da Hezbollah e ritenuta vitale per la propria efficienza e sicurezza; decise pure di smantellare la rete di telecamere abusive che controllavano all’aeroporto i movimenti dei voli privati utilizzati soprattutto dai politici, e di dimettere il capo della sicurezza del medesimo, troppo compromesso con il partito di Dio. La reazione fu immediata e violentissima. L’8 maggio le vie di Beirut dei quartieri sunniti e misti furono invase da centinaia di uomini armati e la violenza esplose diffondendosi a macchia d’olio in altri quartieri urbani ed extraurbani, fino a rggiungere la montagna nelle zone druse. Si calcola che i morti furono circa 300 e notevoli le distruzioni. Per la popolazione fu uno choc, anche se le zone cristiane vennero risparmiate.

Da bravi pompieri, i paesi arabi si mossero d’urgenza per spegnere l’incendio e l’emiro del Qatar invitò i leader politici della maggioranza e dell’opposizione a recarsi immediatamente a Doha, la capitale dell’emirato, per intavolare trattative di riconciliazione e trovare una soluzione alla gravissima crisi politica che aveva compromesso la stabilità e la sicurezza del paese. In cinque giorni di dialogo serrato, sotto pressione e controllo arabo, si raggiunse un accordo, firmato il 21 maggio, che sanciva l’impegno di salvare il Libano, rispettando la Costituzione e gli accordi di Ta’if. Il primo risultato visibile fu, nei giorni successivi, l’elezione consensuale ed unanime del generale Michel Sleiman a presidente della Repubblica. Questo fatto sbloccò la situazione. Altri  risultati prospettati, ma con scadenze diverse o con diversa forza cogente, furono: la formazione di un governo di unità nazionale, l’adozione di una legge elettorale più rappresentativa della volontà popolare, l’astensione dal ricorso alle armi e alla forza per risolvere le contese politiche, il riaffermare il primato dello Stato e della legge. Se i primi due punti vennero attuati con fatica e con esito discutibile, l’attuazione degli altri due rimase problematica. A riprova gli scontri armati tra sciiti e sunniti per le vie di Beirut nell’agosto 2010, con l’esercito che faticava a contenerli e l’incapacità di procedere rapidamente al sequestro della armi ed all’arresto dei responsabili.

Da Doha ad oggi

Da allora ad oggi, (marzo 2014), mentre il mandato presidenziale si avvvicina alla scadenza, il governo Hariri cadde per il voltafaccia del druso Jumblatt, ago della bilancia, provocando un nuovo terremoto politico. Nel giugno 2011, dopo cinque mesi di aspre trattative, vide la luce un governo dal quale la coalizione del 14 marzo si è autoesclusa. Ma anche questo governo, presieduto dal centrista Nagib Mikati, è durato solo fino ad aprile 2013, minato pure dalla crisi siriana che ha spaccato e continua a spaccare trasversalmente il paese. Per oltre 10 mesi il Libano è nuovamente rimasto senza governo, per di più con un Parlamento che nel 2013 si è autoprolungato il mandato di 18 mesi per incapacità a trovare un accordo su una nuova legge elettorale soddisfacente per tutti, funzionando inoltre a singhiozzo per il boicottaggio di alcuni gruppi politici. Con il rischio reale di mancare la scandenza presidenziale nel maggio 2014, si è assistito in questi ultimi mesi a una progressiva paralisi delle istituzioni dello Stato, tale da compromettere gravemente la stabilità interna e la credibilità internazionale del paese. Come vari commentatori locali hanno osservato, mentre la nave sta colando a picco, i politici discutono del … sesso degli angeli o, più prosaicamente, delle loro ambizioni e delle poltrone ministeriali, dando sovente prova di irresponsabilità collettiva, di dipendenza da paesi stranieri, di calcoli confessionali, con risultati catastrofici. E quando, in extremis, trovano la soluzione,  gridano al miracolo, vantando la capacità dei libanesi a trovare un’intesa, mentre in realtà vi sono stati costretti da pressioni internazionali che sarebbe ingenuo ignorare.

Non vanno tuttavia sottovalutati alcuni passi positivi compiuti in questo stesso arco di tempo, soprattutto per iniziativa del presidente della Repubblica. Spicca tra questi la Conferenza del dialogo nazionale che, tra alterne vicende, generò la dichiarazione di Baabda (sede del palazzo prsidenziale) dell’11 giugno 2012. Questo importante documento, firmato dai vari gruppi politici rivali tra cui Hezbollah, riconosciuto dalla Lega Araba e dalle Nazioni Unite, mirava anzitutto a rafforzare lo Stato e le sue istituzioni, completando ed adattando alla realtà attuale il Patto nazionale del 1943. Per questo  venne accolto con favore dall’opinione pubblica, sensibile soprattutto alla neutralizzazione del Libano dalle ricadute della crisi siriana che si aggravava di giorno in giorno, provocando un flusso crescente di rifugiati, e dai conflitti regionali. Ma, da parte di Hezbollah, si trattava soprattutto di una mossa tattica legata all’impegno dello Stato di arginare il contrabbando di armi in favore dell’opposizione siriana, al Nord. Infatti, meno di un anno dopo, il partito sciita, rivelando ila proprio coinvolgimento militare in Siria, a fianco del regime del presidente Assad, per fronteggiare, a suo dire, i gruppi sunniti estremisti, rinnegava clamorosamente gli impegni assunti e dichiarava la dichiarazione di Baabda superata e non più rispondente alla mutata situazione locale, regionale e internazionale. Fermo su questa posizione, Hezbollah continua a rifiutare ogni compromesso, come pure sulla menzione della resistenza (contro Israele) quale uno dei pilastri della politica nazionale, per giustificare il proprio possesso delle armi. Conseguentemente rifiuta che il conflitto con Israele passi in secondo piano rispetto al conflitto siriano, mentre questo, non senza qualche fondamento, è visto pure come un’ennesima prova del complotto americano e sionista per la frammentazione del Medio Oriente e l’estensione della loro egemonia. E su ciò combacia esattamente con il punto  di vista della Repubblica islamica d’Iran.

L’oggi

Da metà febbraio 2014 il Libano ha nuovamente un governo, presieduto da Tammam Salam, figlio di un noto statista del passato. I cittadini, benché per lo più disincantati, hanno tirato un sospiro di sollievo. Questo governo, detto “di interesse nazionale”, è nato come governo consociativo, con l’autoesclusione delle Forze Libanesi, uno dei poli cristiani del 14 marzo, noto per la sua irremovibile opposizione a sedere allo stesso tavolo con Hezbollah finché non  ritirerà i propri miliziani dalla Siria, mentre gli altri partiti o correnti della stessa coalizione, dopo un rifiuto durato vari mesi, hanno finito realisticamente per cedere,  verosimilmente con altri vantaggi. La Siria è quindi sempre in primo piano, a riprova che la politica libanese può essere prosiriana o antisiriana, ma non può prescindere dalla Siria nel bene o nel male.
Obiettivo primario di questo governo, denominato pure “dei cento giorni” perché dovrebbe rassegnare le dimissioni dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica a maggio, è quello di portare a termine l’elezione del nuovo capo dello Stato, ma pure di appianare la via a una nuova legge elettorale in vista delle elezioni dell’autunno. Tuttavia dovrà confrontarsi con problemi scottanti e urgenti. quali la sicurezza e la lotta al terrorismo, (ormai una priorità per tutti), il degrado socio-economico e il flusso crescente di rifugiati siriani. Senza contare che sta urtando frontalmente contro un ostacolo non del tutto imprevisto.
A poche settimane dal suo insediamento, non è ancora riuscito ad ottenere la fiducia del Parlamento, perché i rappresentanti dei sette blocchi parlamentari che lo compongono stentano a trovare un’intesa sulla dichiarazione programmatica, indispensabile per ottenere la fiducia. Lo scoglio è sempre Hezbollah che rifiuta di entrare nella logica dello Stato per quanto riguarda la resistenza. L’ennesimo ‘compromesso alla libanese’ non ha finora funzionato. E cresce il rischio che scada il tempo costituzionale per la fiducia (un mese), riducendo il governo al  disbrigo degli affari correnti, senza legittimità politica, con quanto ne consegue.

Il panorama politico del paese resta sempre legato alla presenza delle due grandi coalizioni, dell’8 e 14 marzo, le quali, in attesa delle elezioni, difficilmente sono ormai qualificabili come maggioranza e opposizione, ma che continuano imperterrite ad affrontarsi, pur consociate in uno stesso governo. Nella logica di una democrazia normale si tratterebbe di un’assurdità: la maggioranza governa e l’opposizione fa opposizione. L’aveva fatto notare opportunamente il patriarca maronita emerito, paragonando il governo libanese a un carro tirato da due cavalli che vanno in direzione opposta. Ma ai politici va bene così, perché così hanno deciso per salvare l’apparenza di una democrazia consociativa e consensuale, quale vuole essere la democrazia libanese, anche in assenza di un reale consenso. E il patriarca attuale, Béchara Rai, sembra giustificare questa posizione che corrisponderebbe al sistema libanese, nonostante le troppe contraddizioni. La popolazione invece,  assillata dai problemi concreti della vita quotdiana, sta a guardare e non si aspetta molto da uno Stato che non riesce a soddisfare i suoi bisogni essenziali: sicurezza e stabilità, acqua e corrente elettrica, assistenza sanitaria, lavoro… Nonostante ciò, larghe fasce, tra cui molti giovani, sono fortemente politicizzate e pronte a sostenere i loro leader  con qualsiasi mezzo, non escluso il ricorso  alle armi, sempre più diffuse nei vari ambienti e messe in mostra o usate all’occorrenza senza troppo ritegno. Teatro di violenti scontri armati sono state recentemente i dintorni di Saida (Sidone) al sud, tra sunniti estremisti e l’esercito, accusato di parteggiare per Hezbollah, e soprattutto Tripoli, al nord, dove sunniti pro opposizione siriana ed alauiti pro regime si affrontano regolarmente davanti a un esercito incapace di imporre un cessate il fuoco permanente.

Nodi sul tappeto

Nell’ambito di questo quadro complesso per le sovrapposizioni etniche e religiose, complicato e ulteriormente imbrogliato da un contesto regionale incandescente, non è difficile individuare alcuni punti nodali che continuano a minacciare la stabilità del Libano. Tra questi:

  •  il conflitto siriano con il duplice atteggiamento dell’opinione pubblica libanese nei confronti del regime di Damasco: favorevole o contrario; l’impegno militare di Hezbollah in questo conflitto; il sempre più pesante fardello dei profughi siriani;
  •  il perdurare del conflitto con Israele, con la presenza di 400mila palestinesi – tra cui gruppi estremisti e terroristi –  aumentati con l’arrivo di altri palestinesi  in fuga dalla Siria;
  • l’apertura ufficiale del tribunale internazionale dell’Aia per giudicare i colpevoli dell’attentato che costò la vita all’ex Primo Ministro Rafic Hariri e ad altre decine di persone nel 2005;
  • le armi di Hezbollah e il ruolo dell’Iran.

Questi aspetti problematici, fonte di acute polarizzazioni politiche interne, non sminuiscono affatto aspetti positivi della convivenza islamo-cristiana che vanno al di là della politica, presentandosi come punti di forza e nuove tappe di un cammino secolare, a volte travagliato, ma alla ricerca di nuovi equilibri e nuove convergenze miranti anzitutto a una maggiore stabilizzazione interna, oltre che all’ambizione ribadita di offrirsi come modello ad altri paesi del Medio Oriente e, perché no, di altre parti del mondo.

La crisi siriana e le sue ricadute sul Libano

Si è già accentato al ruolo ineludibile di questo vicino, grande e scomodo, sulla scena politica libanese. Da ormai tre anni la Siria vive un conflitto sanguinoso che si è trasformato in guerra civile aperta, con oltre 140.000 morti, distruzioni che hanno pure arrecato gravi danni al ricchissimo patrimonio  culturale del paese, una gravissima crisi umanitaria ed economica e la massiccia presenza di jihadisti e takfiristi stranieri, provenienti da oltre 50 paesi, gli uni più estremisti degli altri, i quali, a partire dall’Iraq e ora dalla Siria, stanno minacciando tutto il Medio Oriente, in attesa forse di dilagare un giorno in Occidente. Il conflitto ha provocato l’esodo di  milioni di persone sia all’interno che verso i paesi limitrofi (Turchia, Iraq, Giordania e Libano), in assenza di prospettive per una rapida soluzione politica, anzi con realistiche previsioni di aggravamento, come appare dall’intensificarsi dei combattimenti dopo il fallimento di Ginevra 2, la conferenza internazionale convocata dalle Nazioni Unite il 22 gennaio scorso, bloccatasi di fronte all’intransigenza dei belligeranti e dei loro sostenitori.

Il Libano, paese accogliente per eccellenza, ma pure senza reali possibilità di poter arginare il flusso crescente di profughi, ne ospita ormai più di un milione. Assommati ai rifugiati palestinesi, formano una massa di oltre un milione e mezzo su una popolazione di circa quattro milioni, il che significa che oggi, in Libano, quasi un abitante su tre è un rifugiato straniero, con conseguenze drammatiche per il paese nel campo sociale, economico e politico. Il ridottissimo territorio nazionale (poco più di 10.000 kmq) e la configurazione della società che raggruppa ben 18 comunità in un delicato equilibrio, sono sottoposti a una pressione insostenibile. Ne derivano gravi squilibri di cui tutti i cittadini subiscono le conseguenze. In alcuni casi, per proteggersi, le autorità municipali di certe località hanno dovuto sottoporre i rifugiati a un regime di coprifuoco notturno: una novità assoluta per il paese.
L’accoglienza di queste persone, giunte ad ondate incontenibili, è stata accompagnata dall’intransigenza ufficiale nel rifiutare l’allestimente di campi loro destinati per il timore che si ripetesse la triste esperienza vissuta con i palestinesi: accolti provvisoriamente come profughi nel 1948 e dopo la guerra del 1967, vivono tuttora in campi in condizioni inaccettabili. Per questo lo Stato ha formalmente proposto alle Nazioni Unite la creazione di campi al’interno della Siria, in zone relativamente sicure, benché il progetto non sia stato ritenuto realistico per il rifiuto della maggioranza dei rifugiati di rientrare nel loro paese in guerra. Per cui, pur aiutate in buona parte dall’Alto Commissariato per i Rifugiati, queste persone vivono in tende o baracche, in situazione precaria e disagiata, al di fuori di ogni struttura di accoglienza. Solo i più fortunati o benestanti hanno trovato una sistemazione più decente presso parenti e amici o in abitazioni prese in affitto. Proprio in vista di un consistente aiuto al Libano per far fronte al problema dei rifugiati siriani ed alle sue ricadute sull’economia del paese, una conferenza internazionale ad alto livello si tiene a Parigi il 5 marzo.

Per quanto riguarda l’impegno militare di Hezbollah in Siria, va espressamente contro la dichiarazione di Baabda del 2012 e contro la politica ufficiale dello Stato di “tenere le distanze” da questo conflitto che trascinerebbe il Libano nella spirale degli assi regionali e internazionali. Ciò non toglie che libanesi, sia musulmani che cristiani, parteggino  per l’uno o l’altro dei belligeranti. Hezbollah giustifica la sua presenza nel paese vicino con la necessità di combattere l’estremismo sunnita che minaccia pure il Libano, e ciò è vero, ma i fatti sembrano dimostrare che proprio il suo coinvolgimento diretto  nel conflitto, in coordinamento con i guardiani della rivoluzione iraniani,  sta attirando in casa propria i suoi acerrimi nemici: dall’agosto 2013 ad oggi ben 11 attentati suicidi con autobombe su 13 hanno avuto come obiettivo zone che sono sotto il suo stretto controllo e istituzioni iraniane, con decine di vittime, centinaia di feriti e gravi devastazioni. E il ritmo di questi attentati, prescindendo da quelli che sono stati sventati, sembra essersi accelerato dall’inizio dell’anno, seminando il panico nella popolazione. Ma, per ora, Hezbollah, pur sapendo che queste autobombe provengono tutte dalla Siria,  non è disposto  a recedere. E si ritiene che parecchie centinaia di suoi miliziani, se non alcune migliaia, stiano attualmente combattendo nel paese vicino, accanto ad altre migliaia di pasdaran iraniani.

Il perdurare del conflitto con Israele

Il Libano, tranne nel 1948, non ha mai partecipato a una guerra contro Israele; eppure è il paese arabo che ha pagato uno dei prezzi più alti in numero di vittime e distruzioni. L’armistizio del 1949 è tuttora in vigore e la presenza dell’Unifil non mira tanto a far concludere un accordo di pace tra i due paesi, sempre ufficialmente in stato di guerra, quanto piuttosto ad evitare pericolose escalation che possono portare ad un riaccendersi del conflitto. Del resto il Libano ripete in tutti i toni che sarà l’ultimo paese arabo a firmare la pace con Israele. Lo detta la delicata e complessa situazione interna e la sua debolezza che non permettono passi coraggiosi in questa direzione, perché sarebbero fatali per la compattezza nazionale e la pace civile.  Israele resta per tutti “il nemico”, l’unico verso il quale devono essere puntate legittimamente, ma in difesa, le armi dell’esercito e della resistenza, eufemismo per indicare il ramo militare di Hezbollah. Anche  fazioni cristiane che durante la guerra civile collaborarono con Israele, giustificando il loro atteggiamento per poter sopravvivere, vedono oggi in Israele  un paese che rappresenta l’esatto opposto dei valori che il Libano è supposto incarnare, cioè il dialogo, la tolleranza, l’accettazione dell’altro, il vivere insieme, la convivialità tra gruppi diversi, il non rivendicare la maggioranza, l’interazione e l’interidipendenza, il pluralismo istituzionalizzato; un paese insomma plurale e variegato di fronte ad un paese monocolore che pretende il riconoscimento della sua “ebraicità”, ignorando ostinatamente il 20% arabo della propria popolazione e i milioni di rifugiati palestinesi che sognano, sia pure irrealisticamente, il ritorno alla loro terra. La sfida tra i due paesi e tra le due visioni è aperta e il futuro dirà quale sarà la formula vincente.
La fragilità della situazione sul versante israeliano emerge pure dalle quotidiane violazioni dello spazio aereo libanese, dall’installazione alla frontiera di sofisticate apparecchiature di ascolto e di disturbo della rete telecom nazionale e dalla periodica scoperta di reti di spionaggio a favore di Israele che coinvolgono persone pubbliche e privati cittadini, uomini e donne, cristiani e musulmani delle diverse regioni e, a volte, persino uomini dei servizi di sicurezza.

Da parte sua Hezbollah non è da meno. Occasionali esplosioni sospette nella zona che dovrebbe essere priva di armi illegali denotano che il partito di Dio rimane attivo e vigilante fino a ridosso della frontiera, pronto ad intervenire. Del resto non fa che vantarsi della propria potenza di fuoco, aumentata assai rispetto alla vigilia della guerra del 2006 e ritenuta, almeno fino a un certo punto, un efficace deterrente nei confronti di Israele. Questo massiccio riarmo, apparentemente allentatosi per il conflitto siriano e i ripetuti interventi dell’aviazione israeliana in Siria o sul confine libano-siriano contro depositi  e convogli di armi sofisticate, è di chiara origine iraniana. Sembra tuttavia difficile che Hezbollah, attualmente coinvolto in Siria, possa contemporaneamente reagire militarmente a questi attacchi israeliani. Se ne riserva  semplicemente il diritto, affermando che risponderà “al momento opportuno e nel luogo adatto”. Quanto basta per mantenere alta la tensione in Israele e alla frontiera..

Lo Stato ebraico, a sua volta, identifica Hezbollah con il Libano, e le sue ripetute minacce –una vera spada di Damocle – riguardano l’intero paese, ritenuto connivente per il ruolo che questo partito vi gioca nella vita politica e negli ingranaggi dello Stato. Periodicamente e ufficialmente Israele ripete al Libano che, in caso di nuovo conflitto, tutte le infrastrutture militari e civili del paese saranno obiettivi legittimi e verranno colpite. Per quanto il Libano, conscio della propria debolezza,  faccia di tutto per evitare un nuovo scontro frontale con Israele e si appelli sovente alle Nazioni Unite contro le sue ripetute minacce, si trova in una situazione per lo meno imbarazzante ed ambigua, poiché Hezbollah da anni preme perché lo Stato si identifichi ed agisca secondo il trinomio “esercito, popolo e resistenza”, rifiutato  invece da una buona parte dei cittadini e che il presidente Sleiman vorrebbe sostituire definitivamente  con il trinomio “terra, popolo e valori comuni”, privilegiando così ciò che di positivo li unisce, anziché ciò che li divide.

In questa delicata situazione, il ruolo dell’Unifil è essenziale per il mantenimento della pace. Formata da una trentina di contingenti, tra cui il più numeroso rimane quello italiano, con un comandante pure italiano per la seconda volta, (attualmente il gen. Paolo Serra), compie la sua missione su vari versanti: collabora strettamente con l’esercito libanese, facilitandone il dispiegamento e l’addestramento, senza però intervenire direttamente in operazioni di disarmo di eventuali trasgressori, (non è questo il mandato che ha ricevuto dal Consiglio di Sicurezza, bensì quello di privarli del loro retroterra militare); presta alla popolazione civile numerosi servizi umanitari; interviene pure in progetti di ricostruzione e di sviluppo. Sporadici incidenti  non hanno intaccato il credito di cui gode presso la maggioranza della popolazione, anche se deve muoversi con estrema prudenza e tener conto della suscettibilità di chi è pronto a  coglierne le falle per comprometterne la missione.

Connessa con il conflitto con Israele e sua conseguenza è la presenza sul territorio nazionale di ben 400mila rifugiati palestinesi, cresciuti ora di numero per l’arrivo incontrollato di quelli fuggiti dalla guerra in Siria. Rinchiusi nei campi loro assegnati, autogestiti, sovvenzionati dall’Unrwa, in situazione di povertà e degrado, fortemente politicizzati sulla scia delle diverse fazioni palestinesi tra loro rivali, sono armati e aperti a influssi di gruppi estremisti e radicali che hanno trovato rifugio nei campi e un terreno propizio alle loro attività terroristiche e sovversive. Questa presenza armata svolse, dagli anni Sessanta del secolo scorso, un ruolo nefasto nella vita del paese. Con l’appoggio dei paesi arabi cosidetti progressisti, formò uno stato nello Stato e provocò la scintilla che fece scoppiare nel 1975 la guerra civile, per cui ci vollero anni per ristabilire fiducia e collaborazione. Infatti, solo recentemente il Libano ha accordato ai Palestinesi, tra polemiche e contestazioni, i diritti civili, primo fra tutti il diritto al lavoro, ma resta fermo nel rifiuto dell’integrazione che comprometterebbe in modo irrreversibile i delicati equilibri interni tra le varie comunità e nuocerebbe soprattutto ai cristiani. Questo rifiuto, condiviso da tutti i Libanesi, è ormai iscritto nella Costituzione.

Il tribunale internazionale

Dopo aver avvelenato il clima politico del paese negli anni scorsi, suscitando illimitate speranze nella giustizia internazionale oppure la massima diffidenza nei suoi confronti, il tribunale internazionale per il Libano, istituito dal Consiglio di Sicurezza su richiesta libanese e con sede all’Aia, procede sistematicamente nel proprio lavoro. Uno dei principali artefici della sua organizzazione è stato l’italiano Antonio Cassese, ora defunto.  Dopo anni di indagini e la pubblicazione dell’atto di accusa, il tribunale ha finalmente iniziato l’audizione dei testimoni, ma in assenza degli imputati: cinque persone legate direttamente o indirettamente a Hezbollah, delle quali il partito di Dio ha respinto categoricamente la consegna, richiesta invece formalmente dal tribunale alle autorità libanesi. Queste, purtroppo, si sono mostrate impotenti di fronte all’obbligo di arrestarle e incapaci persino di fornire informazioni utili sul loro conto. E’ come se fossero svanite nel nulla. Qualcuno afferma che avrebbero cambiato identità e che si troverebbero al sicuro in Iran o in qualche altro santuario. Sono quindi processate tutte in contumacia.
Varie TV locali trasmettono in diretta le sedute del tribunale, ma l’opinione pubblica le segue con distacco. Nove anni sono ormai trascorsi dall’attentato del 2005 e il clima politico è cambiato. Lo Stato versa regolarmente i contributi dovuti al funzionamento del tribunale senza troppe contestazioni e l’opposizione di Hezbollah e dei suoi alleati è ora più formale che efficace. E’ prematuro prevedere la conclusione del tribunale e il suo verdetto finale. Farà veramente luce su pagine oscure della recente storia libanese, individuando soprattutto i mandanti di troppi delitti politici e di tante inutili stragi? Qualunque sia il verdetto, è certo che inciderà sulla scena politica libanese, pur non potendo prevedere le conclusioni pratiche che ne trarranno le forze politiche in campo.

Le armi di Hezbollah e il ruolo dell’Iran

E’ un altro punto sensibilissimo e quindi potenzialmente esplosivo, un punto sul quale, secondo Hezbollah stesso e i suoi alleati, non bisognerebbe più insistere, perché è inutile di fronte all’ostinazione del partito sciita. Ma c’è invece chi, con la stessa ostinazione, continua a farlo, chiedendo in particolare l’integrazione degli uomini e dei mezzi militari di Hezbollah nell’esercito, unico e legittimo garante della sicurezza del paese e della difesa delle sue frontiere. Il dialogo tra sordi, su questo, come su altri punti, continua.
Nonostante le ripetute risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sul disarmo di tutte le milizie, libanesi e straniere, la convinzione delle autorità e di buona parte dell’opinione pubblica  è che si tratti in questo caso di un problema interno e che la soluzione sia quindi da trovarsi in modo consensuale e non ricorrendo alla forza. Per questo, il Libano ufficiale resiste a tutte le pressioni internazionali, anche se provengono da paesi amici, ed ha messo per ora in sordina quanto nella dichiarazione di Baabda si riferisce a Hezbollah.

Purtroppo, nonostante gli impegni presi e reiterati, negli anni passati per ben due volte le armi della resistenza sono state puntate verso l’interno, cioè su cittadini libanesi inermi, senza che lo Stato intervenisse efficacemente, suscitando legittime perplessità in gran parte dell’opinione pubblica sunnita e cristiana.Non estraneo agli obiettivi della resistenza ad Israele, ma in una prospettiva regionale più ampia, è pure da situarsi l’attuale coinvolgimento di Hezbollah in Siria che  risponde a precise esigenze strategiche dell’Iran, alleato di Damasco e ultimo ma fermo baluardo regionale di fronte allo Stato ebraico.
E’ infatti con l’Iran che Hezbollah è legato a doppio filo. Questo paese l’ha aiutato a nascere (nel 1982), a svilupparsi, ad addestrarsi, ad armarsi, a svolgere un importante ruolo sociale nella comunità sciita libanese attraverso generose elargizioni che gli permettono, tra l’altro, la gestione di una fitta ed efficace rete di istituzioni a carattere educativo e assistenziale.
L’eventuale caduta del regime siriano non solo costituirebbe una severa sconfitta per l’Iran, ma comprometterebbe pure la profondità strategica di Hezbollah che ha sempre trovato appoggio nel regime di Damasco e nella Siria il canale naturale del proprio riarmo. Nel contempo, spezzerebbe l’asse sciita Teheran-Bagdad-Damasco-Hezbollah, per cui la Siria e Hezbollah cesserebbero di essere la testa di ponte iraniana sulle sponde del Mediterraneo e di fronte a Israele. La posta in gioco è rilevante per i futuri equilibri geopolitici del Medio Oriente e del mondo, con le inevitabili ricatude sul paese dei cedri che si trova sempre nel cuore del ciclone.

Segni di speranza

Se in Libano come in tanti altri paesi, la politica va male e non è mai all’altezza della situazione, i libanesi, disincantati e consci che troppi problemi sfuggono alla loro comprensione e capacità di soluzione, continuano a manifestare volontà di vivere e intraprendenza in tutti i campi. In un paese dove lo Stato conta poco e fa poco, guai se non fosse così. La società civile è assai dinamica: e vivace: attività culturali, sociali, sportive; fiorente è l’associazionismo giovanile, non solo di marca politica.
Il turista di passaggio, ormai raro, che ignora le zone periferiche depresse, rimane colpito dall’apparente benessere, anzi dall’opulenza e dall’ostentazione di cui non pochi libanesi fanno sfoggio. Quel che appare non è tutto il Libano, ma è pur sempre Libano. Non va dimenticato che l’importante diaspora libanese mantiene forti legami con la madrepatria e con i familiari e continua a immettere annualmente nelle tasche dei cittadini miliardi di dollari che sfuggono al controllo dello Stato e che vengono investiti immediatamente in costruzioni, imprese commerciali, automobili,, e anche, per certe categorie, in articoli di lusso e spese voluttuarie. Questi capitali e tutti quelli che i paesi del Golfo continuano ad investire nel paese dei cedri, nel settore immobiliare o depositandoli nelle sue banche, sia pure con mire speculative, denotano che la fiducia nel Libano non è venuta meno, nonostante l’instabilità cronica. Ultimo gesto, non certo privo di motivazioni e obiettivi politici, i tre miliardi di dollari offerti recentemente dall’Arabia Saudita per potenziare l’esercito libanese. E i libanesi sono imbattibili nel  saper sfruttare questa manna piovuta dal cielo. Del resto, è stato questo afflusso di capitali, oltre a tutti quelli che sono stati offerti al paese, soprattutto dopo la guerra del 2006, che ha permesso una rapida ricostruzione. Ciò non toglie che i segni delle varie guerre siano ancora visibili qua e là, che lo sviluppo sia disuguale, e soprattutto che lo Stato sia ufficialmente dissanguato e schiacciato dai debiti per i faraonici progetti di ricostruzione lanciati negli anni Novanta, dopo la lunga guerra civile, dal defunto Primo ministro Rafic Hariri. Da notare inoltre che la ricostruzione materiale è sempre più facile della ricostruzione dell’uomo…

Su questo piano, soprattutto su quello dei rapporti umani, radicati nella duplice tradizione cristiana e islamica, il Libano, nonostante la sua travagliata storia recente e la polarizzazione politica attuale che, del resto, è trasversale, ha ancora qualcosa da dire e da insegnare.
Dal 2010, il 25 marzo, festa dell’Annunciazione della Madonna, venerata, sia pure in modo diverso, da cristiani e musulmani, è diventato giorno festivo nazionale, una festa islamo-cristiana per tutti i cittadini. Si tratta di un passo inedito, coraggioso, unico al mondo. Quest’idea, promossa prima da un gruppo, poi dal comitato per il dialogo nazionale islamo-cristiano, è stata infine adottata dal governo che l’ha approvata all’unanimità.
Il Primo ministro, Saad Hariri, nel congratularsi in quell’occasione con i libanesi, disse: Questa festa ufficiale “esprime la volontà di vivere insieme dei musulmani e dei cristiani del Libano”. E precisò: “Questa giornata non deve diventare semplicemente un giorno festivo in più nel calendario dei giorni festivi riconosciuti. E’ compito dei leader spirituali e religiosi di ogni comunità, come pure della società civile, trasformare questo giorno in una vera occasione spirituale e nazionale che riguardi tutti i libanesi senza eccezione, e di fare del nome della Vergine Maria un simbolo irradiante della nostra concordia nazionale”. Parole che possono lasciare indifferenti e scettiche le società secolarizzate dell’Occidente, ma non la società libanese.

Quasi con la stessa unanimità e a tutti i livelli  è stato salutato ed applaudito il recentissimo Memorandum nazionale, reso pubblico dalla Chiesa maronita il 12 febbraio di quest’anno, un documento che, a partire dalla storia del paese dal 1920, quando venne creato il Grande Libano nelle sue frontiere attuali, ribadisce le costanti dell’intesa tra cristiani e musulmani, ne traccia le linee-guida e si presenta come vera road map per affrontare la situazione attuale. C’è quindi da augurarsi che dalle parole si passi ai fatti, rispettando anzitutto la prossima scadenza del mandato presidenziale con la più ampia convergenza possibile su una persona rappresentativa e forte e con l’approvazione di una legge elettorale che garantisca le legittime aspirazioni di tutti e ponga fine alle troppe anomalie che hanno costellato il panorama politico libanese del dopoguerra, cioè dal 1990 ad oggi.

A conferma che la speranza è l’ultima a morire, è opportuno citare come conclusione quanto ha affermato alcuni anni fa uno sceicco sciita moderato ed aperto. Dopo aver invitato musulmani e cristiani ad andare al di là dei convenevoli, ha detto: “La nostra dottrina deve essere che i cristiani sono una necessità per i musulmani e che la loro protezione, la loro vitalità, la loro presenza e la loro libertà sono pure responsabilità dei musulmani, affinché i cristiani non si sottraggano alle loro responsabilità nei confronti di ciò che ci unisce, mentre i musulmani si sottraggono implicitamente alle loro responsabilità nei confronti di loro stessi e del loro islam” (Hani Fahs nel convegno “Far rivivere il ruolo dei cristiani nell’Oriente arabo”., in Al-Diyâr, 26 settembre 2010, p. 7). Parole incoraggianti se confrontate con quanto sta accadendo in tante parti del vasto mondo islamico.

Alcuni libri recenti in italiano, utili per l’approfondimento:

Georges Corm, Il Libano contemporaneo. Storia e società. Jaca Book, Milano, 2006.
Rosita Di Peri, Il Libano contemporaneo. Storia, politica, società. Carocci, Roma, 2009.
Gian Micalessin, Hezbollah. Il partito di Dio, del terrore, del welfare. Boroli editore, Milano, 2006.
Sabrina Mervin (a cura di), Hezbollah. Fatti, luoghi, protagonisti e testimonianze. Epoché edizioni, Milano, 2009.
Samir Kassir, Beirut. Storia di una città. Einaudi, Torino, 2009.

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