IL CORTILE | ALLIEVI

Daneluzzi Sergio

sd1505@virgilio.it
1977
MILANO/Bellagio
15/05/1960

Figlio di un direttore d’albergo, i miei primi anni di vita hanno visto succedersi fermate diverse: Santa Margherita Ligure – dove sono nato – Bologna e Ischia, ora lontanissime e assai vaghe. In seguito mio padre iniziò a lavorare per le Nazioni Unite e la prima missione lunga fu a Cipro.

Anch’io – come altri ex-allievi – nel ’69 feci un bel viaggio sulla Mn. “Ausonia” e mi fermai a Limassol per poi raggiungere Nicosia. Cipro era allora un bellissimo posto, ma io avevo solo nove anni, non parlavo una parola di inglese, tantomeno di greco, e già coltivavo una marcata tendenza all’introversione. Fui iscritto a una scuola greca, dove arrivai a essere in grado di fare dei dettati senza capire una parola di quello che scrivevo.

Non avevo amici e passavo il mio tempo fantasticando, aspettando le copie di Tex che mio nonno mi mandava regolarmente dall’Italia e studiacchiando sulle dispense di una scuola per corrispondenza che mi avrebbe poi consentito di fare in Italia l’esame da privatista. Cercavo anche di decifrare qualche fumetto americano, con scarsi risultati. Non poteva andare avanti così. All’inizio dell’anno scolastico 1971/72 ero in collegio a Beirut – in linea d’aria neppure lontanissima – iscritto alla seconda media. Avevo undici anni.

All’inizio non fu per niente facile: non vedevo l’ora di tornare a casa. Come capita nei collegi, subivo ogni tanto le angherie di qualche ragazzino più grande (io che sarei poi arrivato ad essere alto 1.93 e a pesare un quintale…).Ero spesso triste e malvolentieri partecipavo alle attività comuni. Era tutto così nuovo e diverso.

Dei Salesiani non potevo lamentarmi: Don Saggiotto e Don Dore erano simpatici e avevo una vera predilezione per Don Paoloni – forse perché mi passava la mia paghetta periodica e lo avevo visto scherzare amabilmente con mio padre, mezzo friulano anche lui.

Ho dimenticato moltissimo di quegli anni e forse rimosso il trauma che devo avere subito all’inizio. Lentamente ho cominciato a entrare in relazione con dei compagni. Ero in camera con i fratelli Castelli, poi con Enrico Ruggeri; frequentavo i fratelli Chiari, i Murano, Claudio Cordone, più avanti Giuseppe Pigozzi, e tanti altri. Ricordo le uscite al cinema, le prime gite, i lunghi pomeriggi di studio, la noia di qualche domenica in cortile e il muezzin al tramonto, che annunciava la fine della giornata.

Negli anni successivi tutto fu più facile e divertente. Alcune cose non migliorarono mai: il sugo della pasta nei giorni di festa, i panini della merenda pomeridiana, la mia attitudine al calcio, la mia timidezza con le ragazze.A un certo punto arrivarono anche quelle, e la nostra vita divenne immediatamente più interessante di prima. Carla e Marina Rotta Loria, che erano nella nostra classe, avrebbero distratto chiunque.

Già nel 1973/74 tutto era cambiato. Arrivato dalle vacanze estive avevo visto in cielo le scie dei combattimenti aerei della guerra dello Yom Kippur e mi sentivo ormai, più che esiliato in collegio lontano da casa, al centro del mondo. Non ero più un bambino e attorno a me erano accadute cose importanti, come l’incursione dei commando israeliani nel palazzo al di là del campo da calcio e l’occupazione della scuola da parte dei palestinesi il giorno successivo – spararono a terra provocando la fuga di Enrico Ruggeri in stampelle. I Phantom israeliani facevano tremare i vetri durante le lezioni – una volta ne vedemmo uno che cercava di sfuggire a un missile antiaereo, lasciando dietro di sé palle di fuoco.

Si udivano ogni tanto spari e lontani colpi di artiglieria. Ma, più di questo, le prime passeggiate libere per Beirut, le gite, gli inviti delle compagne di classe, le feste a casa di qualcuno, le discussioni anche astruse con qualche salesiano mentre altri ballavano, i primi goffi tentativi a pallacanestro osservando e apprezzando d’istinto lo stile del tiro in sospensione di Ziad e Tawfiq, tanto più bravi di chiunque di noi. L’entusiasmo per le partite contro l’ACS sul campo in parquet, che purtroppo ero solo in condizione di osservare da spettatore – ah, se avessi solo avuto qualche anno in più…
A un certo punto divenne una vita notevolissima, piena di emozioni, di attività, di interessi, di sport – il tutto reso più intenso dalla consapevolezza che non sarebbe durata a lungo.

Don Caputa, Don Bedon, Don Libralato, Don Moroni, Don Tiziano Sofia, e il mio confessore e terapeuta d’elezione, Don Pireddu, che studiava letterature comparate all’Università americana e che più di tutti forse mi ha aiutato e voluto bene. E tanti altri. Impossibile rendere giustizia a tutti. Anche quando negli anni successivi mi è potuto sembrare di essere lontano da loro, ne ho ricordato sempre la serietà, la buona fede e il disinteresse. Sono stato fortunato ad incontrarli.

Il 1974/75 fu l’ultimo anno. Nell’estate del ’74 ero già stato evacuato da Cipro, invasa dai turchi, grazie alla Royal Air Force. Avevo iniziato l’autunno a Beirut con mio padre, che si sarebbe presto trasferito in Siria – mia madre era già in Italia con mio fratello. I Salesiani, che avevano deciso di non avere più allievi interni, vista la situazione accettarono di ospitare fino alla fine dell’anno me e Claudio Cordone.

Fu un anno memorabile. Facevamo più o meno tutto quello che volevamo, anche se la nostra libertà non era naturalmente paragonabile a quella – invidiatissima – degli “esterni”. Don Morazzani, ritenendoci comunque ragazzini molto responsabili, cosa che eravamo veramente, non ci negò mai il permesso per una passeggiata o per un’uscita al cinema. Giravamo per Hamra e scendevamo la scalinata che portava all’ACS e all’Università americana.

Ci divertivamo – e studiavamo tanto. In camera nostra, dove ogni tanto di nascosto fumavamo qualche sigaretta – inizialmente introdotta da Flavio Battaglia – ci lanciavamo in astruse discussioni di filosofia morale mentre dal nostro balcone guardavamo le stelle ascoltando, sul primitivo registratore di Claudio, “Blood on the Tracks” di Dylan e altra musica stupenda. C’erano compagni nuovi, l’eccentrico Augusto Eusepi e i suoi fratelli, Gabriella Ferrandino, e tanti altri.

La situazione peggiorò definitivamente verso la fine dell’anno scolastico. Ogni tanto non si poteva uscire. Ricordo delle serate già estive in cui io e Claudio giocavamo a pallacanestro da soli in cortile, bevendo ogni tanto una bibita dal distributore automatico di Afif.

Poi un giorno Don Morazzani mi accompagnò all’aeroporto, tra terra rossa e posti di blocco, a uno dei soliti 707 della MEA, uno di quelli che centinaia di volte avevano sorvolato rumorosamente il cortile della scuola seguendo il percorso di avvicinamento alla pista.

Dopo la libertà, l’apertura mentale e la vivacità di Beirut, il provincialismo dell’Italia degli anni ’70 e un altro collegio, a Bergamo, pensato come attività imprenditoriale, dove incontrai ragazzi in fuga dalla scuola pubblica per rendimento inadeguato o problemi “politici”.

Furono anni duri. Nel ricevere le lunghe lettere di Claudio, che era ancora a Beirut con la famiglia, mi prendevano nostalgia e invidia per la vita avventurosa sua e di chi era rimasto. Tornai brevemente a Beirut per la Pasqua del 1977, suo ospite. Non ci sono mai più tornato. D’altronde, la scuola non c’era più. Ne conservo, come in un piccolo tabernacolo, tre frammenti, da lui recuperati per me dopo la demolizione.

Dopo gli anni di Bergamo, finalmente la maturità e poi l’Università Statale a Milano – la mia seconda casa – l’istituto di Anglistica, la mia trasformazione in uno “specialista”, la mia lunga tesi su Yeats. L’anno di militare in Friuli nella allora divisione “Ariete” e le mie passeggiate a Venezia, un periodo molto bello della mia vita. Poi la speranza di lavorare in università, gli studi, le traduzioni, fino al momento in cui mi resi conto che senza le raccomandazioni e i percorsi giusti era impossibile. Il giorno della mia prima ed unica lezione universitaria mi telefonò mio fratello per dirmi che mio padre aveva avuto un infarto ed era morto.

Iniziai a lavorare come insegnante nelle scuole civiche del Comune di Milano e si trattò di un notevole restringimento dei miei orizzonti, almeno all’inizio. Negli anni ho avuto poi diversi altri incarichi e mansioni, fino a diventare preside di alcune scuole. Continuo a lavorare per il Comune di Milano, ma non mi occupo più di scuole.

In tutti questi anni ho vissuto in modo forse un po’ monotono, oscillando tra Bellagio e Milano, ma ho incontrato alcuni buoni amici e amiche, degni di quelli di Beirut, ai quali sono molto legato. Ho anche avuto nel tempo varie fidanzate, che mi hanno dato sicuramente più di quanto io non abbia saputo dare a loro. Da una di queste – che ricordo con nostalgia – venni a sapere con comprensibile stupore che era stata in precedenza per qualche tempo legata ad Alberto Chiari – una sera mi capitò anche di rivederlo. Ho fatto qualche bel viaggio – Australia, Nuova Zelanda in primis – e tanti anni di basket, purtroppo solo amatoriale. Gioco ancora, con grande fatica e ginocchia traballanti.

Nel profondo continuo a sentirmi uno studente, e per certi versi sono ancora a Beirut. Quante volte negli anni ho sognato quella camera e il corridoio dell’ultimo piano… E’ un po’ come se la parte migliore della mia vita fosse rimasta lì. Ogni tanto ho l’impressione – ma naturalmente non è un’impressione – di non essermi mai adattato e di non essere mai realmente cresciuto, anche se non sono poi così lontano dai cinquanta.

Ma questo, mi dicono, capita un poco a tutti.

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